10 gennaio 2019

JAZZ. Sax di quartiere. Il sogno era suonare, vivere, morire come Parker.

SAX DI QUARTIERE
Nico Valerio, Il Mondo, 21 giugno 1973

Qual è il « pubblico idea­le » per una jam-session, per un concerto di jazz? Quello elegante e un po' su­perficiale del Sistina (o del Li­rico) o quello scamiciato dei localini dell'eterna periferia, che non sarà mai centro nep­pure tra cento anni, o forse quello raccolto e intellettuale delle « caves » semibuie dove assieme ad un whisky si cen­tellinano amori, pettegolezzi, futilità? Sarebbe troppo, forse, pretendere in ogni caso la sem­plicità e la competenza degli avventori dei caffè e ristoranti della 52a Strada, a New York. Di sicuro si può rispondere che è già molto se la musica ne­gro-americana - come del re­sto la musica dotta europea - ha trovato un pubblico va­rio per età e condizione socia­le, almeno di sinceri appassio­nati se non di tutti veri inten­ditori. Stucchi e dorature, ten­daggi e appliques in stile impe­ro come non hanno mai aiutato un'opera mediocre a divenire opera d'arte, così non hanno fa­vorito la diffusione della musi­ca, specie il jazz, tra le grandi masse di giovani.

È capitato in anni anche recenti – basti ricordare il successo strepitoso di Dave Brubeck e del Modern Jazz Quartet – che il jazz più ca­sto e svirilizzato si installasse in pianta stabile nei salotti di quella « high society » su cui ironizzava l'antico clarinettista Alphonse Picou, un ambiente senza stimoli e senza rischi, ol­tre quello – s'intende – che il jazz finisse per ammalarsi di gotta: per il troppo mangiare. Un pubblico vivo e stimolante è infatti determinante anche sul piano strettamente musicale. Il rapporto privilegiato, quella sorta di ionizzazione che si crea tra artista-esecutore di jazz e pubblico, stabilisce una certa corrente elettrica, una reazione sempre reversibile, se è vero che nessun pubblico come quel­lo dei concerti jazz ha tanta influenza sugli assoli, sulle in­venzioni melodiche, sulla stes­sa tenuta ritmica degli uomini che suonano, apparentemente lontani, sotto i riflettori.

Le implicazioni sociali di una musica equamente e intel­ligentemente diffusa tra i ceti più disparati e nelle zone più decentrate sono poi abbastan­za ovvie. Sociologi e urbanisti – questi moderni saggi del­l'era tecnologica che con la scusa dello studio dell'ambien­te hanno da dire la loro su tut­to – hanno auspicato tra gli altri « servizi sociali » da ren­dere alla collettività a cura delle istituzioni culturali stata­li e private anche quello della musica, in tutte le sue espres­sioni. Almeno per il jazz, ecco­li accontentati. Dopo la felice riuscita delle manifestazioni or­ganizzate da alcuni circoli aziendali per operai e impiega­ti, da quello dell'Italsider di Piombino all'attivissimo circo­lo delle acciaierie di Terni che ha ospitato i recente i trom­bettisti Art Farmer e Freddie Hubbard, l'orchestra di Maynard Ferguson, l'organista Lou Bennett e altri grossi nomi, an­che nelle grandi città, e spe­cialmente a Roma, visto che la periferia e i ceti operai non possono andare al jazz, il jazz ha deciso di trasferirsi - stru­menti e bagagli – proprio in periferia. Già avevamo visto al cinema-teatro di Centocelle in un pubblico decisamente nuovo di giovani e meno giovani, tutti del popolare quartiere, affian­carsi al gruppo dei fedeli sui­veurs. Lo stesso è accaduto, con una presenza più marcata­mente giovanile, in occasione del concerto-saggio dato nel marzo scorso al piccolo teatro del Torchio dai bravissimi allie­vi del corso di jazz della Acca­demia di S. Cecilia.

Ora è stata la volta di una « quattro giorni di musica », dal 17 al 20 maggio scorso, or­ganizzata sotto l'egida dell'Ar­ci e di un non meglio precisa­to Collettivo romano dei musi­cisti jazz da un Centro di ini­ziative popolari intitolato a Pia Carena Leonetti. I pomeriggi del jazz tenuti a Montemario-al­to in uno scantinato vistosa­mente « nature » non aveva­no - una volta tanto - alcuna traccia di quel tipo di sno­bismo fondato su una semplici­tà spartana e un tantino ma­sochista che ben conoscono i frequentatori del cabaret più alla moda. La musica è stata oltretutto di buon livello, se si considera la giovane età di tut­ti i musicisti, i migliori dei quali, a parte il pianista Mar­tin Josef e il bassista Bruno Tommaso, appartengono alla « second line » gasliniana di cui si è detto, come il sassofoni­sta Maurizio Giammarco e la pianista Patrizia Scascitelli do­tata di feeling e di un incisivo fraseggio.

Una presentazione dignitosa e niente affatto « strumentale », come ci si poteva attendere da un circolo che fa anche «po­litica » di quartiere, la par­tecipazione stupefacentemente compatta dei giovani del luo­go, uno addirittura in veste di esecutore, il bravo sax al­to Massimo Urbani, anche lui un gasliniano (Gaslini ha det­to di lui: « Ricordate questo nome: fra qualche anno sarà famoso») dalla impressionan­te maturità stilistica ed espres­siva, hanno costituito certo una felice sorpresa per chi aveva guardato con scetticismo al ten­tativo di portare una musica tanto sofisticata e difficile nel­le zone della più lontana peri­feria urbana e culturale. Inve­ce dobbiamo dire che il pub­blico ha risposto con entusia­smo a questo coraggioso atto di fiducia da parte degli organiz­zatori, che – c'è da sperarlo – potrebbe avere presto un se­guito in altre zone.

N.V.

IMMAGINE. Il sassofonista Massimo Urbani a sedici anni, quando esordì come allievo nell'orchestra giovanile di Giorgio Gaslini. Musicista naturale, d'istinto e di rabbia, con un'espressività geniale, ma con studi musicali troppo presto conclusi, la sua carriera fu rapidissima e sembrò dominata dal mito, dallo stile, dalla personalità ingenua, dal carattere umorale, perfino dalla tossicodipendenza - che dopo pochi anni gli sarà fatale - dell'alto-sassofonista americano Charlie Parker, attivo negli anni 40 e massimo esponente della "rivoluzione" modernista del Be bop. Ma dove avrebbe portato la musica, la vita stessa, irruente, di Urbani e di altri esponenti di quella generazione giovanile nata e talvolta morta nelle periferie, non poteva essere previsto dal giovane critico del prestigioso settimanale "Il Mondo", che nel riferire tra i primissimi il nuovo fenomeno è giustamente prudente. Riletto quasi 50 anni dopo dallo stesso critico-autore, l'articolo, per quanto riguarda la scoperta dell'adolescente Urbani è un vero "scoop", ma è attento piuttosto all'intero nuovo quadro d'ambiente. Il jazz, musica difficile e intellettuale per chi la suona, la studia e la critica, tentava di abbandonare anche in Italia i rassicuranti velluti dei teatri della media borghesia (pagante) in favore delle cantine povere e senza pubblico o dei palchi delle distratte piazze di provincia, tornando al Be bop senza compromessi, e senza neanche l'ombra di quello snobismo e quella ricca mondanità che si erano visti a Parigi ai tempi di Boris Vian. 

AGGIORNATO L'8 NOVEMBRE 2021