“LA TAVOLA degli Antichi” recensita da Debenedetti sul Corriere della Sera.
ERBE RUSTICHE, FORMAGGIO ALL'AGLIO, TRENTA QUALITÀ DI MELE PER UNA CUCINA PIÙ SANA
SCOPERTA L’ANTICA DIETA DI GIULIO CESARE
ANTONIO DEBENEDETTI, Corriere della Sera, 29 luglio 1989
Nei romanzi del secolo scorso si mangia molto e si mangia troppo saporito. Nessun medico consiglierebbe oggi di seguire quelle diete ricche di profumati ripieni, di ghiotte selvaggine, di fritture e di dolci, che trovano i loro complici naturali in vini fra robusti e insidiosamente vellutati. Gli scrittori di questi nostri anni soffrono viceversa, dal più al meno, d'un atteggiamento di distaccata sufficienza nei confronti della buona cucina: i loro personaggi si siedono frettolosamente a tavola, evitando generalmente di soffermarsi sul menu.
Molto più consigliabili, a scorrere il ricettario «De
re coquinaria» di Apicio o le pagine dei classici (da Plinio a Ateneo di
Naucrati, da Catone a Archestrato di Gela volendo escludere l'orgiastico
Petronio), ci appaiono viceversa i menu dell'antica Roma. I quali, con un po'
d'immaginazione, precorrono quei gusti e quelle mode gastronomiche dell'oggi,
che all'appetitoso recupero degli alimenti naturali associano efficaci campagne
contro colesterolo, trigliceridi e altri pericolosi inquilini del nostro
sangue.
Per chi voglia soddisfare piccole e grandi curiosità,
spaziando fra storia della gastronomia e elementi derivati dalla ricerca
antropologica, è adesso disponibile un vasto affresco eloquentemente intitolato
«La tavola degli antichi» ovvero «In cucina con i Faraoni, con Pericle e
Lucullo, con Nerone e Messalina»: sono 328 pagine molto fitte che escono in
prima edizione, con evidenti finalità divulgative e di colto intrattenimento,
negli Oscar Mondadoriani (lire 10.000). Autore è il quarantacinquenne Nico
Valerio: studioso di alimentazione: ha già dato alle stampe saggi come «Tutto
crudo», «Il piatto verde» e via così.
Per cominciare, anche nella lettura, nulla di meglio
d'un antipasto «naturale» desunto dalla lettura dei prosatori latini: insalata
di erbe rustiche, tartine spalmate d'un impasto di formaggio, sedano, aglio,
ruta, coriandolo, olio e aceto. Non mancano olive e schegge di formaggio
pecorino. Per secondo si può scegliere, accoppiando carni e verdure: agnello al
forno, lesso di mare alle erbe, arrosto al miele, cardi in umido, porri
gratinati al forno, malva alla Cicerone, broccoli stufati.
Il dessert non può certo dirsi sguarnito: mostaccioli,
panini all'uva, purea di mele cotogne, frittelle. La fruttiera, poi, è
stracolma: mele di trenta o quaranta diverse qualità, pere, fichi, uva. Quanto
ai vini c'è solo l'imbarazzo della scelta: mezzo litro d'un «d.o.c» costa sui
30 denari, la stessa quantità d'un vino superiore ma non straordinario si paga
24 denari. Mezzo litro di vino ordinario, secondo il prezzario imposto nel 301
d.C. dall'imperatore Diocleziano, non supera il costo al dettaglio di 8 denari.
I tipi disponibili, secondo una tabella pubblicata da Valerio, sono oltre
trenta. Vino? Bisogna intendersi al riguardo: i «d.o.c.» degli antichi romani,
dopo essere stati affumicati per giorni nel fumarium, vengono «aromatizzati con
nardo di Siria o celtico, rosa, giunco odoroso, fiori di sambuco e di iris,
coriandolo, semi di sedano, anice, mandorle amare, cannella.
A tutto questo si mescola, quale correttivo dell'amaro
e dell'acido, il miele. Quasi non bastasse, il cocktail così ottenuto finisce a
invecchiare in botti spalmate di pece greca o di resina di pino. Non stupisce,
dunque, che i bevitori legali, cioè «gli uomini maturi e i vecchi», gustino il
loro Albano o il loro Cecubo, il loro Falerno o il loro Labicano annacquati con
due terzi o addirittura con tre quarti d'acqua. Nella calura dell'estate, poi,
la soldataglia combatte l'arsura con acqua corretta all'aceto. Le signore
ricorrono a una bibita di latte arricchito con sedano e crescione. Alle giovani
vergini, che s'apprestano alla loro prima notte d'amore, si offre un decotto
analgesico a base di papavero, il cocetum. Una cucina più sana e appetitosa
dell'attuale, s'è detto.
Le duecento ricette (mancano fortunatamente quelle
relative alla preparazione delle pur diffuse pietanze a base di topo o di
cane), che figurano in appendice alle pagine dello scorrevole testo di Valerio
(e oggi chiunque può ripeterle senza troppa fatica), non sono soltanto una
curiosità o un invito a ritrovare insieme con il ricercatore, con l'archeologo
antiche golosità. Valgono una dimostrazione. I nostri antenati mediterranei non
conoscevano alimenti oggi giudicati indispensabili come il mandarino o la
melanzana, la patata o il pomodoro, il carciofo o il fagiolo, il caffè o la
cioccolata. Avevano dalla loro una quantità enorme di piante, tuttavia, che
rendeva molto più variati, più sorprendenti
sapori della loro tavola. In buona armonia con una natura che ospitava
ancora, fin sulle rive del Tevere, il cervo e il capriolo, il lupo e il
massiccio orso bruno.
ANTONIO DEBENEDETTI
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