08 dicembre 2018

JAZZ. Quelli che vivevano per il jazz di New Orleans: il caso di Carlo Loffredo.

La famiglia ne voleva fare un avvocato, e non si è mai saputo se sia riuscito davvero a diventarlo, come lui andava dicendo agli intimi; perché all'università (diritto) "perdeva tempo" come contrabbassista, chitarrista e banjoista di jazz, la musica di cui era innamorato, la musica della sua vita, e che allora nel primi anni del Dopoguerra significava la ritrovata libertà per tutti, perfino per la gente di Destra (era monarchico, come mi confessò una volta). Del resto, alla fine degli anni Quaranta addirittura il figlio di Mussolini si guadagnava da vivere in gruppetti jazz a Ischia, dove la famiglia era confinata, come mi confermarono, appunto, Loffredo e il famoso compositore di canzoni napoletane e grande jazzofilo anch’egli presente ovunque in quegli anni avventurosi, Ugo Calise, detto “Calais” per il vezzo ironico di americanizzare tutto fingendosi un “paisà” a New York.
      Morto questa notte, a 94 anni, lucido e attivo fino a pochi giorni fa, Carlo ("Carletto") Loffredo è stato protagonista e testimone attivissimo, sempre con l’entusiasmo di un eterno ragazzo, e ragazzo sveglio, di tutta la lunga e difficile evoluzione che doveva portare il jazz italiano, romano in particolare, a uno stentato e incerto professionismo, partendo dal dilettantismo velleitario dei figli della buona borghesia che dopo il 1945 presero a scimmiottare passione, creatività e libertà dei mitizzati “negri” anglofoni, “creoli” francofoni e “paisà” italofoni e siciliani di New Orleans, curiosamente pari (il largo pubblico non lo sa ancor oggi) sulla linea di partenza nella creazione negli Stati Uniti del primo vero jazz strumentale e collettivo, utilizzando ragtime per piano, blues e musica per banda. Non per caso nei medesimi anni, pur così diverso culturalmente, si spendeva a Parigi in un analogo lavoro maieutico il geniale divulgatore anticonformista, organizzatore e cornettista dilettante Boris Vian. 

      Perciò Loffredo frequentò e conobbe tutti nel mondo del jazz che non si riconosceva nel Be-bop, e accompagnò i maggiori musicisti di “hot jazz” di passaggio in Italia (come Armstrong). Instancabile organizzatore musicale, presentatore, divulgatore, musicista, soprattutto fondatore di piccoli gruppi e numerose orchestre revival, tra cui la famosissima e brillante "Roman New Orleans Jazz Band", facilitato dal fatto che Roma voleva dire la radio Rai di via Asiago (e poi la Tv di via Teulada) che lo ospitarono molto spesso, il cinema a cui proporre colonne sonore, e anche la mitica RCA tra i cui dirigenti discografici si annidavano parecchi cultori di jazz.
      Allergico a ogni teoria, seriosità e retorica dell’estetica, invano inseguito da accuse di dilettantismo e superficialità, opponeva che così vivevano, pensavano e suonavano gli antichi che a lui piacevano: bisogna anche divertire e divertirsi. Quello di Loffredo era perciò un jazz, tradizionale sì, ma che pur con dignità strizzava sempre l’occhio allo spettatore, allo spettacolo, a un garbato umorismo, come del resto si faceva negli Stati Uniti negli anni Trenta e Quaranta, prima che arrivasse l’intellettualistico bebop. Lo swing, con le sue canzoni ritmiche, finì perciò per affiancarsi e prevalere al puro New Orleans. Naturale che fosse molto richiesto, a cominciare dai locali notturni della Roma della “Dolce Vita”, dal cinema e dalla tv.
      Non certo il periodo New Orleans, ovviamente, ma lo “stile” manieristico del revival neo-New Orleans fu a lungo osteggiato dalla critica, appunto perché in origine fenomeno nostalgico e dilettantistico, di imitazione, spesso tecnicamente rudimentale, quindi sottoculturale. Però la critica dovette in parte ricredersi per il sovrapporsi di due fenomeni: 1) diffusosi il be-bop, il jazz in generale diventa vera e propria “musica d’arte” da ascolto e senza tempo, in cui l’autore esprime tutta la sua creatività senza limiti, e il musicista e l'ascoltatore possono scegliere qualunque periodo o stile, come nella musica europea colta; 2) i musicisti di Dixieland (altro nome per i neo-New Orleans bianchi) su cui ha sempre gravato la tara del dilettantismo, si mettono a studiare quasi come gli altri (teniamo presente che non Armstrong, che sapeva leggere benissimo, ma il geniale Bix Beiderbecke, bianco di Chicago, non era in grado di leggere all’impronta in modo fluente), curano spartiti e filologia e imparano finalmente a suonare bene, non più solo a imitare pedissequamente e malamente gli assoli dai dischi storici, ma anche a interpretare in modo professionale (p.es. improvvisando con personalità, idee e buona tecnica gli assoli), insomma diventano anch’essi veri e propri musicisti.
      Per niente snob, a differenza di molti jazzisti italiani, aveva l'humour e la semplicità dei ragazzi: una grande dote. Sempre disponibile. Per anni, ad esempio, il suo gruppo ha suonato da un camion in movimento, come si faceva a New Orleans per matrimoni e funerali (di qui il nome stile “tailgate” cioè “portellone aperto” per i tromboni a coulisse che fuoriescono dal cassone posteriormente) perfino dietro i cortei dei Radicali, per i quali pur non nascondendo di essere un conservatore, Loffredo aveva una certa simpatia.
      Carlo Loffredo attraversando da protagonista, prima sottovalutato poi apprezzato, tutto intero l’arco di questa vera e propria trasformazione culturale, a suo modo, con i suoi limiti, onesti perché non nascosti, con un invidiabile spirito semplice e giovanile, col suo tipico understatement goliardico da grande eterno dilettante, è stato in Italia un insuperato propagandista della parola “jazz” nei dischi, alla radio, in televisione, dal vivo. E ha recuperato e fatto conoscere anche le belle canzoni italiane para-jazzistiche dell’Era dello Swing, negli anni Trenta e Quaranta, che fecero dire a più d’uno che “il jazz riuscì a farla perfino al Fascismo”, che non poté fare nulla per sradicarlo neanche in Italia.
      Ecco perché un apparente “entertainer” disimpegnato come Loffredo ha fatto – paradossalmente – per la musica jazz più di tanti sedicenti intellettualini “impegnati” 
seriosi e pretenziosi, che più che fare buona musica "la danno a intendere" e bluffano. Per questo la sua “vita in jazz” è storicamente importante in Italia e a Roma in particolare.
      Grazie, Carletto.

AGGIORNATO IL 10 DICEMBRE 2018

1 Comments:

Anonymous Dr Augin said...

Grande entusiasmo, grande uomo.

8 gennaio 2019 alle ore 00:29  

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