08 settembre 2017

G.G.BELLI e i suoi Sonetti. Tra mr.Hyde e dr.Jeckill nasce il romanesco letterario.


Il 7 settembre, nasceva a Roma nel 1791 Giuseppe Gioachino Belli, una vita banale e modesta, un carattere tranquillo, una personalità curiosa di tutto, ma non brillante, studi interrotti nella prima adolescenza, piccolo impiegato, quando non disoccupato, negli Uffici Ecclesiastici (in uno di questi uffici gli toccò fare il censore, severissimo quanto ottuso, di opere letterarie e teatrali). E ancora, credente fino all’osso, ma cattolico all’italiana, cioè pieno di dubbi, furbo realismo e scetticismo, papalino convinto, moralista, tradizionalista, anzi, spesso bigotto e reazionario. E il poeta? Ah, sì: autore di mediocrissime poesiole accademiche in lingua italiana. Questo il Belli-dr.Jeckyll.
      Ma c’era anche il Belli-sig.Hyde: amante della libertà personale (e chi non l’ama?), insofferente dei divieti e del fanatismo, satirico, anarchico, anche qui moralista fino a diventare anti-papalino, cultore del comico, osservatore realistico di costumi popolari, linguaggio e sessualità, che descriveva senza pudori, fino al cosiddetto "turpiloquio". Ecco, a proposito, un suo pezzo di bravura sui 53 sinonimi e significati, anche in modo figurato, del “Padre dei Santi”, cioè del membro maschile (e nell'originalissimo e osé mio articolo-saggio su questo sonetto ho dovuto scomodare, per compensazione, anche Shakespeare, Foscolo, Tommaseo e Leopardi. E non è finita: Giuseppe Gioachino Hyde era lettore curioso di ogni cosa, compresi opere di illuministi, atei e liberali (addirittura gli andavano “a genio” Voltaire e Locke), dunque vietate nello Stato della Chiesa. Ma soprattutto è autore di oltre 2000 segretissimi, clandestini sonetti romaneschi.
      Tutto questo fino ai primi anni 40 dell’Ottocento. Dopodiché, l’ambivalenza si risolve e ritorna per sempre il rispettabile (ai propri occhi) dr. Jeckyll: rispettoso dell’ordine, reazionario e pauroso di ogni libertà. Nel ’49, terrorizzato dalla Repubblica Romana, con un atto illogico brucia le sue carte, per primi i sonetti, che riteneva più compromettenti. Ma come, proprio quando andavano al potere quelli che li avrebbero potuti lodare? Non contento dà ordine a un amico monsignore di bruciare anche la cassetta con le copie dei duemila sonetti più vecchi. Ipocrita: sapeva benissimo che don Tizzani li apprezzava molto e non lo avrebbe mai fatto.
      È chiaro, e si capisce dalle lettere, che il piccolo borghese Belli non vuole essere identificato dopo la morte come autore dei Sonetti (il che avrebbe danneggiato, teme, il figlio Ciro, magistrato, verso cui nutre un’apprensione morbosa). Insomma non vuole svelare ai posteri il lato segreto dell’iconoclasta irriverente che per tutta la sua doppia vita era riuscito così bene a occultare. Solo pochi amici più intimi dell’Accademia Tiberina sapevano.
      Una personalità ambigua e contraddittoria in massimo grado quella del Belli, con punte d’una meschinità senza pari. Non meravigliamoci se fu preso dagli ingenui liberali Risorgimentali (che già si erano sbagliati su papa Pio IX) per un liberale! In realtà ogni sonetto, anche il più aperto, si presta a complesse interpretazioni; e molti, la maggior parte, sono sul versante opposto.
      Come autore di versi fu per decenni considerato un minore, un curioso autore locale; poi riscoperto dal grande Vigolo (veneto) che con qualche forzatura e con sue note romantiche e spesso prude e fuori luogo (ed. Mondadori del 1952) creò il grande monumento a un Grande Poeta. Moravia, che esagerava sempre, paragonò i Sonetti addirittura all'Inferno di Dante. Anche Marcello Teodonio rievocando il Belli su Radio-Tre (Wikipedia) nella semplice ricorrenza del giorno della sua nascita, ha azzardato un parallelo tra l’esule fiorentino che scrivendo la Divina Commedia inventa la lingua italiana e il Belli esule in casa, per autoesclusione e rifiuto della società, che con i Sonetti inventa la lingua romanesca. Ha parlato anche di “bilinguismo” nel Nostro: una lingua aulica ma insulsa e inutilmente accademica, precisiamo noi, nelle sue poesie in italiano; e una lingua bassa, "dialettale", nei Sonetti, che lui non parlava, perciò una "lingua letteraria", però vivida e ricca di colori e caratteri, limitatamente ai migliori sonetti, devo aggiungere.
      Oggi, invece, è giunto il momento di storicizzare Belli e di inquadrarlo più criticamente non solo nel suo ma anche nel nostro tempo e nel sistema di valori che sono propri della cultura e della letteratura. Certo, non è un Leopardi. La casualità e la meccanicità di troppi sonetti minori, alcuni dei quali avrebbe dovuto del tutto scartare se avesse posto mano a una revisione (del resto era capace di scriverne anche dieci al giorno, e senza poi rivederli e correggerli più di tanto), pesa eccome sul bilancio artistico.
      Ma nei suoi sonetti migliori resta la vivacità e la sintesi geniale, e soprattutto la fotografia dal basso, dai vicoli, di un’epoca e di una società – quella della Roma degli ultimi Papi-Re – che altrimenti avremmo perduto, e il monumento letterario alla “nuova” e originalissima lingua romanesca.
      Romanesca? E che vuol dire: scritti nel “dialetto” di Roma, come sicuramente credono a Vicenza o a Matera? No. A Roma propriamente non esiste un dialetto, che è una sotto-lingua parlata da tutti, da ogni classe sociale, aristocratici compresi. Ma questo, Teodonio non l’ha neanche accennato. Infatti a Firenze e a Roma le persone colte hanno sempre parlato l’italiano e fiorentino puro (a Roma imposto dai Papi fiorentini), sempre rifiutando il gergo irridente, satirico e volgarissimo dei popolani, fino al 600 con vaghe inflessioni napoletane. Gergo romanesco, appunto, non romano, dove il suffisso –esco suona spregiativamente perché riferita alle volgarità del popolino.
      Ebbene, in questa nuova presunta “lingua” gergale deformata e caustica tipica dei popolani (la stessa che il friulano Pasolini attribuì per errore alla malavita e agli immigrati non romani), però finalmente precisata graficamente, corretta e anche integrata nel vocabolario dallo stesso Belli, sono scritti i Sonetti. Il romanesco col Belli non nasce, ma rinasce, e precisa meglio le proprie regole. Che non è poco. Linguisticamente, perciò (ma non solo, ovviamente), a differenza dell’Autore che ebbe vita e personalità banali e modeste, i Sonetti, alcuni sonetti, sono grandiosi. Ma sono anche difficili, e oggi vanno tradotti, interpretati, commentati: quasi nessun romano di oggi capisce la lingua belliana, mentre invece capisce il molto annacquato para-romanesco del Trilussa.
      E i belliani sono pochissimi: appena uno o due docenti universitari, e pure svogliati e un po’ troppo conformisti. E non esistendo siti web colti, ben scritti, didascalici e dignitosi per conservare il ricordo dei Sonetti, decidemmo, io e Paolo Bordini, nella totale inazione altrui, di aprire un sito che riportasse all’oggi quel mondo: Il Mondo del Belli.
      Leggetelo questo blog:  i sonetti sono tradotti, commentati e riportati alla Storia dell'epoca e all'attualità di oggi. Una originalità assoluta. http://mondodelbelli.blogspot.it/
      Non ne avrei parlato, anche perché non si trattava d’un centenario, e la semplice ricorrenza del giorno natale è occasione troppo debole per una rievocazione, se Wlikiradio su Radio-Tre non avesse dedicato oggi 7 settembre la puntata al Belli, a cura di M. Teodonio, come sempre troppo encomiastico, tanto da dare quasi l’impressione che il Belli fosse non un isolato, un emarginato culturale in quella Roma dalla piccola nobiltà ignorante e boriosa che tanto aveva schifato Leopardi, ma una sorta di intellettuale maturo consapevole di sé, perfettamente inserito nel movimento di rinnovamento letterario e politico della metà dell’Ottocento italiano. Ha preso troppo sul serio, neanche si trattasse di quello leopardiano, anche il suo Zibaldone, in realtà una semplice serie di riassunti per il figlio Ciro. Così ho voluto riequilibrare.

1 Comments:

Anonymous M. Proietti said...

Ritratto realistico, ma lo specchio migliore sono proprio i suoi sonetti.

18 settembre 2017 alle ore 15:38  

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