29 agosto 2020

PARKER e jazz moderno: be-bop come musica d’arte muta pubblico e costume.

CHARLIE PARKER, il sassofonista contralto afroamericano che più di tutti contribuì alla nascita del jazz moderno, nasceva 100 anni fa, il 29 agosto 1920, a Kansas City.

Una “rivoluzione”, quella del be-bop, che anche considerando solo gli accordi inusitati, la velocità di esecuzione e il geniale senso della sintesi, cambiava voce e faccia alla musica che era stata di Nuova Orleans e Chicago, di Morton, Oliver, Armstrong, Beiderbecke, Henderson, Moten, Ellington.

L'evoluzione dello stile del giovane Parker da musicista di fila e solista di varie Big Band del tardo “swing modernizzante” fino alle forme mature del be-bop è stata oggetto di parecchi studi; e ancor più l’analisi del ruolo della musica del Parker maturo e poi dei "parkeriani" nell’evoluzione del jazz dai primi anni ‘40 a tutti gli anni ’50.

Qui invece conviene limitarsi a sottolineare almeno due curiosi significati "sociali" della rivoluzione di Parker e dei parkeriani.

Per la prima volta nella storia del jazz, il be-bop almeno all’inizio si manifesta un ambiente chiuso all’integrazione coi bianchi, una “rivoluzione nera”, intellettuale e rigidamente nera. A differenza dello mitico “jazz delle origini” nel crogiolo di New Orleans, in cui neri, creoli e bianchi convivevano, del jazz di Chicago, e dell’intera èra dello swing, in cui – favorita dalla mediazione dell’industria musicale – la libera competizione tra orchestre di colore diverso era assicurata (e anzi si contò qualche caso perfino di orchestre miste, come quella di Goodman). Fatto sta che proprio in quegli anni il critico e pianista jazz Leonard Feather, immigrato dall’Inghilterra, dava alla connazionale pianista Marian McPartland il consiglio ironico di non essere né donna, né inglese, né tantomeno bianca, se voleva avere successo come jazzista negli States senza fare la cantante.

La  “nuova” musica di Parker, Gillespie, Monk ecc, inoltre, rendeva per la prima volta impossibile ballare il jazz, per lo più sotto forma di quel famoso fox-trot che i nostri nonni leggevano su ogni facciata dei dischi a 78 giri. Oggi può piacere o più spesso non piacere, ma erano rarissimi i dischi di jazz classico, anche dei grandi musicisti su cui è basata la storia di questa grande musica d'arte, che non fossero pubblicizzati dai furbi industriali discografici come "ballabili". Del resto, nella società Occidentale del primo Novecento il ballo era un richiestissimo divertimento per tutte le classi sociali.

Ed ecco, allora, che per la prima volta, il pubblico afroamericano non segue i suoi confratelli musicisti innovatori e “intellettuali”, perché vuole continuare a ballare. E lo swing per grande orchestra, anche quand’era di alta qualità, vi si era prestato egregiamente.

Tranne minoranze, le masse dei giovani neri e i fanatici jitterbugs che nelle ballrooms si affollavano sotto il palco in acrobazie esibizionistiche che finivano per nascondere musica e orchestra (odiati da tutti i musicisti, neri e bianchi: Artie Shaw per colpa loro ebbe una crisi di nervi e si ritirò addirittura a vita privata) ne furono così contrariati da abbandonare un jazz diventato così “intellettuale” e buttarsi in massa nel semplificato e ripetitivo “rhythm & blues” che si praticava proprio a Kansas City, vera o falsa che fosse l’influenza dei riffs di Count Basie. [Inciso nell’inciso: genere che diverrà subito "commerciale" e poi sarà ancora più annacquato dall’industria discografica per il pubblico cittadino bianco come “rock & roll”]

Anche per questo il be-bop di Parker non fu solo una “rivoluzione” musicale, ma anche sociale. Non solo il jazz moderno, ma l’intera musica jazz, in coincidenza con la nascita della forma be-bop e la perdita della funzione “servile” della danza, pretende di confermarsi definitivamente come nuova “musica d’arte”, cioè unicamente dipendente dalla creatività dell’autore, senza intermediazioni commerciali, quindi di puro ascolto. In concorrenza con la seriosità della musica colta europea, come già da tempo il famoso musicologo Confalonieri aveva vaticinato.

Il be-bop fu certamente uno shock positivo, una rinascita creativa del jazz, che impose anni di aggiornamento e studio a cultori e critici, quasi tutti maschi, abbandonati soli nelle sale da concerto o nei negozi di dischi dalle ragazze, bianche o nere che fossero, considerati “raffinati”, anzi, bollati come “intellettuali”. La vecchia contrapposizione Hot e Cool assumeva ora, tradotta popolarmente in “jazz caldo” e jazz freddo”, un nuovo significato manicheo e serviva a screditare nel largo pubblico dei profani il jazz moderno. Una distinzione da giornalisti inesperti che certo non poteva funzionare su Charlie Parker, insieme hot e cool, al massimo.

Il baricentro fu spostato immediatamente avanti, e il jazz “classico” o “tradizionale” subì un duro colpo, trovando nel fenomeno del “Revival”, tecnicamente e musicalmente limitato o dilettantistico, una compensazione meschina e sottoculturale.

Il complesso d’inferiorità era superato. Il jazz usciva dalla minorità di una tradizione che aveva origini umili e popolari, e quindi collettive e anonime, per elevarsi a creazione di artisti individuali, eguagliando, anzi talvolta superando in tecnica di esecuzione, ma anche in arditezza e complessità del disegno compositivo quella che era stata la sorella maggiore, la Musica Colta europea

Al contrario, per impresari dello spettacolo e industriali fonografici non fu una “rivoluzione” positiva. Iniziò allora il calo nelle tirature dei dischi di jazz che sarebbe continuato in modo inesorabile fino ai giorni nostri: dai milioni di copie degli anni ’30-40 (però due singoli titoli di 3-4 min. ciascuno sui 78 giri di ebanite) fino ai casi-limite di 1000 o 500 copie (però interi album di vari titoli, per complessivi 30-60 min. sui 33 giri di cloruro di vinile).

Ma poi, fu vera “rivoluzione” totale quella del jazz moderno innescata da Parker e altri? Così si ripeteva convenzionalmente in quegli anni. In realtà nuovi studi, nuove testimonianze, dimostrano che perfino il jazz di Parker e l’intero be-bop non cadevano all’improvviso da Giove, ma avevano solide basi nel jazz più tradizionale e perfino commerciale che si potesse pensare, cioè nel filone delle Grandi Orchestre del periodo (e stile) swing, dove certe nuove idee covavano a lungo sotto la cenere, spesso insinuandosi come sprazzo isolato durante gli assoli più eccentrici, specialmente di strumenti a fiato, grazie anche all’intento di stupire il pubblico nelle consuete “battles” o duelli tra solisti.

Ebbene, queste radici tradizionali del jazz moderno, oltre al blues, non sono state messe in evidenza, e anzi per lo più non erano note nei decenni scorsi. C’è voluta la preziosa ricerca dello storico Shipton (“Nuova Storia del Jazz”) per dargli il giusto valore, come anche per sfatare molte leggende popolari o critiche sul jazz “classico”, comprese le figure dei grandi musicisti dell’epoca, come gli stessi Jelly Roll Morton, Armstrong e Bix Beiderbecke. 

AGGIORNATO IL 31 AGOSTO 2020

JAZZ. Out of the Nowhere  https://www.youtube.com/watch?v=x1JH7ZfC1mE

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1 Comments:

Anonymous Dr Augin said...

Grazie: considerazioni originali e intelligenti.

31 agosto 2020 alle ore 18:46  

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