JAZZ. Sax di quartiere. Il sogno era suonare, vivere, morire come Parker.
Qual è il « pubblico ideale » per una jam-session, per un concerto di jazz? Quello elegante e un po' superficiale del Sistina (o del Lirico) o quello scamiciato dei localini dell'eterna periferia, che non sarà mai centro neppure tra cento anni, o forse quello raccolto e intellettuale delle « caves » semibuie dove assieme ad un whisky si centellinano amori, pettegolezzi, futilità? Sarebbe troppo, forse, pretendere in ogni caso la semplicità e la competenza degli avventori dei caffè e ristoranti della 52a Strada, a New York. Di sicuro si può rispondere che è già molto se la musica negro-americana - come del resto la musica dotta europea - ha trovato un pubblico vario per età e condizione sociale, almeno di sinceri appassionati se non di tutti veri intenditori. Stucchi e dorature, tendaggi e appliques in stile impero come non hanno mai aiutato un'opera mediocre a divenire opera d'arte, così non hanno favorito la diffusione della musica, specie il jazz, tra le grandi masse di giovani.
È capitato in anni anche recenti – basti ricordare il successo strepitoso di Dave Brubeck e del Modern Jazz Quartet – che il jazz più casto e svirilizzato si installasse in pianta stabile nei salotti di quella « high society » su cui ironizzava l'antico clarinettista Alphonse Picou, un ambiente senza stimoli e senza rischi, oltre quello – s'intende – che il jazz finisse per ammalarsi di gotta: per il troppo mangiare. Un pubblico vivo e stimolante è infatti determinante anche sul piano strettamente musicale. Il rapporto privilegiato, quella sorta di ionizzazione che si crea tra artista-esecutore di jazz e pubblico, stabilisce una certa corrente elettrica, una reazione sempre reversibile, se è vero che nessun pubblico come quello dei concerti jazz ha tanta influenza sugli assoli, sulle invenzioni melodiche, sulla stessa tenuta ritmica degli uomini che suonano, apparentemente lontani, sotto i riflettori.
Le
implicazioni sociali di una musica equamente e intelligentemente diffusa tra i
ceti più disparati e nelle zone più decentrate sono poi abbastanza ovvie. Sociologi
e urbanisti – questi moderni saggi dell'era tecnologica che con la scusa dello
studio dell'ambiente hanno da dire la loro su tutto – hanno auspicato tra gli
altri « servizi sociali » da rendere alla collettività a cura delle
istituzioni culturali statali e private anche quello della musica, in tutte le
sue espressioni. Almeno per il jazz, eccoli accontentati. Dopo la felice
riuscita delle manifestazioni organizzate da alcuni circoli aziendali per
operai e impiegati, da quello dell'Italsider di Piombino all'attivissimo circolo
delle acciaierie di Terni che ha ospitato i recente i trombettisti Art Farmer
e Freddie Hubbard, l'orchestra di Maynard Ferguson, l'organista Lou Bennett e
altri grossi nomi, anche nelle grandi città, e specialmente a Roma, visto che
la periferia e i ceti operai non possono andare al jazz, il jazz ha deciso di
trasferirsi - strumenti e bagagli – proprio in periferia. Già avevamo visto al
cinema-teatro di Centocelle in un pubblico decisamente nuovo di giovani e meno
giovani, tutti del popolare quartiere, affiancarsi al gruppo dei fedeli suiveurs.
Lo stesso è accaduto, con una presenza più marcatamente giovanile, in
occasione del concerto-saggio dato nel marzo scorso al piccolo teatro del
Torchio dai bravissimi allievi del corso di jazz della Accademia di S.
Cecilia.
Ora è stata la volta di una « quattro giorni di musica », dal 17 al 20 maggio scorso, organizzata sotto l'egida dell'Arci e di un non meglio precisato Collettivo romano dei musicisti jazz da un Centro di iniziative popolari intitolato a Pia Carena Leonetti. I pomeriggi del jazz tenuti a Montemario-alto in uno scantinato vistosamente « nature » non avevano - una volta tanto - alcuna traccia di quel tipo di snobismo fondato su una semplicità spartana e un tantino masochista che ben conoscono i frequentatori del cabaret più alla moda. La musica è stata oltretutto di buon livello, se si considera la giovane età di tutti i musicisti, i migliori dei quali, a parte il pianista Martin Josef e il bassista Bruno Tommaso, appartengono alla « second line » gasliniana di cui si è detto, come il sassofonista Maurizio Giammarco e la pianista Patrizia Scascitelli dotata di feeling e di un incisivo fraseggio.
Una presentazione dignitosa e niente affatto « strumentale », come ci si poteva attendere da un circolo che fa anche «politica » di quartiere, la partecipazione stupefacentemente compatta dei giovani del luogo, uno addirittura in veste di esecutore, il bravo sax alto Massimo Urbani, anche lui un gasliniano (Gaslini ha detto di lui: « Ricordate questo nome: fra qualche anno sarà famoso») dalla impressionante maturità stilistica ed espressiva, hanno costituito certo una felice sorpresa per chi aveva guardato con scetticismo al tentativo di portare una musica tanto sofisticata e difficile nelle zone della più lontana periferia urbana e culturale. Invece dobbiamo dire che il pubblico ha risposto con entusiasmo a questo coraggioso atto di fiducia da parte degli organizzatori, che – c'è da sperarlo – potrebbe avere presto un seguito in altre zone.
N.V.
IMMAGINE. Il sassofonista Massimo Urbani a sedici anni, quando esordì come allievo nell'orchestra giovanile di Giorgio Gaslini. Musicista naturale, d'istinto e di rabbia, con un'espressività geniale, ma con studi musicali troppo presto conclusi, la sua carriera fu rapidissima e sembrò dominata dal mito, dallo stile, dalla personalità ingenua, dal carattere umorale, perfino dalla tossicodipendenza - che dopo pochi anni gli sarà fatale - dell'alto-sassofonista americano Charlie Parker, attivo negli anni 40 e massimo esponente della "rivoluzione" modernista del Be bop. Ma dove avrebbe portato la musica, la vita stessa, irruente, di Urbani e di altri esponenti di quella generazione giovanile nata e talvolta morta nelle periferie, non poteva essere previsto dal giovane critico del prestigioso settimanale "Il Mondo", che nel riferire tra i primissimi il nuovo fenomeno è giustamente prudente. Riletto quasi 50 anni dopo dallo stesso critico-autore, l'articolo, per quanto riguarda la scoperta dell'adolescente Urbani è un vero "scoop", ma è attento piuttosto all'intero nuovo quadro d'ambiente. Il jazz, musica difficile e intellettuale per chi la suona, la studia e la critica, tentava di abbandonare anche in Italia i rassicuranti velluti dei teatri della media borghesia (pagante) in favore delle cantine povere e senza pubblico o dei palchi delle distratte piazze di provincia, tornando al Be bop senza compromessi, e senza neanche l'ombra di quello snobismo e quella ricca mondanità che si erano visti a Parigi ai tempi di Boris Vian.
AGGIORNATO L'8 NOVEMBRE 2021
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