16 dicembre 2004

MUSICA popolare. Rassegna di gruppi, solisti e perfino cantautori al Folkstudio.

 LA SESTA RASSEGNA DI MUSICA FOLK

 Contrade e regioni 

d’Italia

 I soggetti sono sempre gli stessi, gli eterni contrasti tra mariti che faticano e mogli procaci pronte a scappare col primo venuto. Napoli antica ed eterna nei suoi motivi ispiratori

NICO VALERIO, Fiera Letteraria, 9 marzo 1975 

UNA delle tante scoperte di que­sta stagione romana è la mu­sica, e non quella orgogliosa delle sale da concerto, ma quella che si adatta ai teatrini scrostati, ai cabaret smessi, che non sì vergo­gna di scendere nelle cantine del Settecento, imbiancate magari per nascondere il salnitro. Non Bach né Casella, naturalmente, nei meandri di questo vitalissimo spleen della « Roma-sotto», sem­mai avanguardia europea (scorraz­zano da una cave all'altra il gruppo Nuove Forme Sonore di Schiaffini, il maestro Guàccero, Fernando Grillo e Alvin Curran), musiche antiche, medioevali e rinascimen­tali (Musica Insieme di Strazza­-Tommaso-Zimmer-Tecardi), parec­chio jazz e tanta, tanta musica folklorica.
      Delle avanguardie creative, dei gruppi di ricerca storico-filologica (« vanno molto », specie tra gli stranieri residenti a Roma, madrigali e piccanti canzoni d'amore del '500), dei variegati quartetti di « musica totale » e di jazz che ni­dificano nelle anse intestinali di questo underground romano - nel significato letterale, per carità - riferiremo compiutamente in altra occasione, limitandoci per il mo­mento a dare il giusto rilievo ad una manifestazione ben più impo­nente, la 6.a edizione della « Rasse­gna di musica popolare italiana » organizzata dal romano Folkstudio e durata oltre 15 giorni. L'originalità di questo festival-monstre con­sisteva anche in un'inedita presen­tazione multipla dell'intero ciclo di concerti, con date leggermente sfasate, a Roma, Milano, Bologna e Trieste. Anche queste repliche in trasferta sono state curate e or­ganizzate dal locale di Trastevere.
      La rassegna ha naturalmente ot­tenuto il successo di critica e di pubblico che meritava. Il Folkstudio - e Giancarlo Cesaroni che ne è il direttore artistico lo ha ricordato con comprensibile com­piacimento nella presentazione - con 15 anni di attività è il più an­tico e indiscutibilmente il più pre­stigioso locale italiano dedicato al­la musica popolare, regionale, na­zionale e talvolta internazionale, e certo le mistificazioni dell'ambiguo revival del folk, della musica po­polare ricostruita al banco di « mixage » dalle case discografiche, o degli improbabili « autentici inter­preti naifs » scovati in un autogrill dell’autostrada, non vi trovano né spazio né pubblico, fortunatamente. 
      Proprio la maturità e l'esperienza del pubblico del Folkstudio, pe­rò, avrebbero dovuto indurre il pre­paratore del festival ad un minore eclettismo nelle scelte dei musi­cisti da ospitare. Una presenta­zione per filoni culturali, quindi « verticale », o comparata per pe­riodi storici, cioè  « orizzontale », sarebbe stata certamente più sco­lastica ma non avrebbe costretto il pubblico a vere e proprie acro­bazie. E' capitato che il povero cri­tico si vedesse sbattuto dall'antico canto napoletano, riportato con no­tevoli doti di ingenuo understate­ment dall'anziana ma brillantissi­ma Concetta Barra, agli oscuri se­mantismi dei sonetti dei pastori di Orgosolo; dalla dolcezza agreste del teatro contadino di « Quelli di Nocera » al calor rosso delle can­zoni di lotta di Paolo Pietrangeli, il capostipite dei cantautori arrab­biati, degli aedi politici, alle cau­stiche tiritere di Ivan Della Mea. 
      Insomma, salti di secoli da mettere in crisi i poco ferrati in storia, volo radente con « tappeto volan­te » su contrade e regioni italiche, tanto per svergognare i soliti incerti in geografia (« Nocera Infe­riore o Nocera Umbra? ») almeno fino alle prime battute vocali, in un'orgia godereccia o maldicente, greve o stizzosa, pungente o cafo­nesca, di stornelli, villanelle, rima­ri, sonetti, madrigali, passioni, ta­rantelle, storie dell'aia, serenate, melismi onomatopeici, nenie infan­tili, ninne nanne di gustosa incon­gruenza, nelle parlate e nelle lin­gue più diverse.
      I soggetti sono sempre gli stes­si, gli eterni contrasti tra mariti « che faticano tutto il dì » e mogli procaci sempre pronte a scappar col primo venuto, tra contadini in­genui e preti scaltri, padroni e mez­zadri, lavandaie deluse e contesse sospirose, l'emigrante e l'amata che resta. Uno spaccato antropo­logico brulicante di vita, un microcosmo con un proprio ferreo co­dice morale puritano e fondato sull'onore (che è in realtà la vox populi, quello che pensa o riferisce il vicolo linguacciuto, il borgo), una scena di storia minore, per nulla magniloquente, anche quan­do riporta l'eco di grandi avvenimenti storici (il « contrasto » to­scano - una sorta di educato al­terco cantato a due voci - tra la popolana e l'aristocratica sulla guerra di Tripoli, la rivoluzione e la restaurazione napoletana del 1815), cui fa da deciso « basso continuo » un filo di soffusa ma­linconia, la stessa tristezza fatalistica e rassegnata del popolo che si ritrova curiosamente nella gran­de tradizione letteraria e musicale del blues nero-americano, nel fla­menco spagnolo, nel fado porto­ghese e in molte altre espressioni folkloriche europee.
      Il critico e il pubblico, perciò, hanno dovuto scegliere tra i tanti piatti saporiti e ben speziati di questa « grande bouffe » folklori­ca italiana, piluccando qua e là. Ha sorpreso quanti ancora non vi si erano accostati la Sicilia amara di Rosa Balistreri, una cantante aspra e nient'affatto forbita, le cui storie di desolante contenuto inti­mistico o di aperta connotazione sociale conservano l'odore pungen­te di inevitabili agrumeti, di solfare e solfatare abbacinanti come saline al sole. 
      Il canto autoctono, naif e corposo ancora per poco, prima che lo corrompano discografici e Canzonissime, aveva i suoi autori­ interpreti nel coro, visibilmente autentico, dei pastori di Orgosolo, attivo già da vent'anni e scoperto dal musicologo e ricercatore Diego Carpitella. Un quartetto vocale ar­ticolato magnificamente, quello dei cantori-pastori sardi, tra tenore, boghe, mesa-boghe, contra-bassu (voce, mezza-voce ecc.) con degli arditissimi controcanti in falsetto, curiose e originalissime libertà onomatopeiche, trilli e accenti tipi­camente strumentali, che hanno in­cantato il pubblico nonostante le asperità linguistiche. Ed erano so­netti d'osteria tramandati di padre in figlio, molti però nuovissimi, nati per le più diverse circostanze, che si cantano - gomiti sul tavolo - davanti ad un bicchiere di vino.
      Il frasario ingenuo, le tarde e involontarie reminiscenze medio­evali, il sapore campagnolo e gen­tile di storie esili esili, quasi incon­sistenti (com'è sempre stata la vita nelle campagne dell'Italia cen­trale, dolce e civile, affatto priva di fosche tinte e di drammi) sono la cifra stilistica del Teatro conta­dino di Quelli di Nocera umbra. Il gruppo, costituito per lo più da anziani di paese, è apparso amabil­mente genuino nelle sue cantilene a voce alternata, tutti in cerchio a turno, di « Ecco maggio » o della « Passione », canti allegri di primavera e storie di vangelo popolare gustosamente romanzate condotti sul ritmo avvincente del saltarello. E' l'antica Italia contadina del Centro, bonacciona e un po' maldi­cente, libertina a parole ma auste­ra nei fatti, l'universo antropologico della garbata musica di Quelli di Nocera.
      Più maliziosa la Toscana conta­dina della brava cantante Caterina Bueno, attorniata questa volta da un trio di giovani strumentisti che utilizzava in modo sufficientemente credibile gli strumenti tipici delle feste contadine: l'organetto, il vio­lino popolaresco, retaggio cólto della vicina città, il flauto dritto e la chitarra. Canti tristi della Ma­remma, zona di malaria e pellagra, di legnaioli e mezzadri, di conta­dini che non vogliono partire per la guerra (del 1918), e il tradizio­nale repertorio della « leggera », come si chiama in Toscana la gen­te un po' fannullona e perditempo, storie di donne (« La Mea » per esempio), stornelli caustici del Mugello, ninne-nanne. Il tutto in una dizione attentamente corretta e studiata, con un tratto genuino ma raffinato, già in un certo senso cosmopolita malgrado la provin­cialità della cultura. Si sente che la Toscana è sempre stata il cuore vitale dell'Italia.
      Scendendo nuovamente al Sud, ecco la Napoli antica - ma eterna nei suoi motivi ispiratori - di Toni Cosenza, ricercatore e interprete di notevole rigore filologico, non diversamente dal De Simone e dal­la sua Nuova Compagnia di canto popolare, ma più di questi portato alla sottile arte dell' understatement, dell'attenuazione dei toni e dei colori. Dote che non guasta, specie nel folklore musicale napo­letano, per troppi anni offertoci in interpretazioni enfatiche, tenute - figurativamente s'intende - alme­no due ottave sopra. 
      La contempo­ranea esibizione della Nuova Com­pagnia di canto popolare alla Filar­monica, proprio negli stessi giorni del Festival del Folkstudio, ripro­poneva icasticamente la vexata quaestio dei modi interpretativi del canto partenopeo. Tanto le musi­che della NCCP, come ormai viene chiamata, erano imbevute di farsa stravolta, di pantomima pungente ma neanche tanto ironica, di ricchissimi ed elaboratissimi elemen­ti teatrali, così da interessare pro­fessionalmente più il critico dram­matico che quello musicale - co­me ci ha confermato un redattore del più importante mensile di spet­tacoli - quanto al contrario il gar­bo recitativo e vocale di Cosenza si svolge sotto l'insegna d'una cal­colata deminutio interpretativa, te­sa a mettere in risalto le sedimen­tazioni dei materiali musicali, la fedeltà melodico-ritmica alla tradi­zione realmente praticata nelle sa­gre di Giugliano o di Pozzuoli; la linea vitale del canto del popolo, cioè, al di sotto (ma non è certo un minus) di quella intellettualiz­zata che scorre parallela negli am­bienti più raffinati del folk revival, quelli dei colti restauratori.
      Anche il Lazio, regione ricca ma non ben rappresentata in questa rassegna, ha avuto il suo concerto con il Canzoniere del Lazio, bril­lante e ricco di umori ma non certo al livello degli apporti folklorici toscani, sardi, umbri o siciliani. Ma non credo che sia colpa dell'ordi­natore del Folkstudio: vorrei esse­re smentito, ma ho l'impressione che manchino oggi nel Lazio grup­pi di ricerca vocale e strumentale di valore analogo a quello di altri gruppi regionali. Che sia uno dei tanti effetti della grande « calamità » culturale della metropoli ro­mana e del suo alienante moderni­smo consumistico?
Un settore che riserva più d'una sorpresa, in fondo non troppo pra­ticato, è quello degli antichi e me­no antichi canti toscani anarchici e socialisti. Specialista del settore è la cara e dolce Dodi Moscati (lei così amabile e i suoi canti, invece, così pungenti), che è sem­pre stata attratta dai contenuti di certi sfoghi contadini, tramandati da decenni in Toscana, di carattere virulentemente antimonarchico, an­ticlericale o socialista, del socia­lismo romantico della fine Ottocen­to o di quello più realistico del primo Novecento. 
      Naturalmente papi e cardinali, generali e principi di sangue reale non se la vedono molto allegramente in queste can­tilene all'acido solforico, ma l'aria soffusa della stornellata, l'atmosfe­ra della parentesi campestre o del dopo-lavoro dei minatori (alle dure cave di Gavorrano o di Tirli, sopra Grosseto) affidano sorprendente­mente un messaggio intimistico al­la recriminazione politica e socia­le, tanto che il risultato comples­sivo appare oltreché storicamente attendibile anche imprevedibil­mente garbato.
      Non resta a questo punto che completare la lunga locandina del Folkstudio con i nomi di Otello Profazio, che ha attinto al suo ben noto repertorio di storie del Sud, del Canzoniere Veneto, attraverso il suo membro D'Amico, di Giovan­na Marini che ha presentato le sue ballate, dei già citati Paolo Pie­trangeli e Ivan Della Mea, e infine di Francesco De Gregori. Nel com­plesso una rassegna molto ben riuscita.
IMMAGINE. Il gruppo Nuova Compagnia di Canto Popolare di Roberto de Simone.