30 luglio 2021

MANUALE di Terapie con gli Alimenti, “l’opera più ambiziosa e significativa”.

 RECENSIONE DI "ERBORISTERIA-DOMANI": ALTRO CHE "LA SALUTE IN TAVOLA"! 

LE TERAPIE 

SCIENTIFICHE 

"Nico Valerio: divulgatore già noto per la sua manualistica, propone con il suo Manuale di Terapie con gli alimenti  la sua opera più ambiziosa e significativa". 

M.B.[Michele Bernelli], Erboristeria Domani, marzo 1996 

Parafrasando un motto degli strateghi militari, possiamo dire che «l'alimentazione è una terapia condotta con altri mezzi». Si torna, insomma, ad attribuire importanza terapeutica agli alimenti, riannodando un filo che ci lega ai padri della Medicina, da Ippocrate alla Scuola Salernitana. E se la Nutritional Pharmacology non ha i crismi di una disciplina a sé stante, nondimeno si moltiplicano le osservazioni scientifiche che potrebbero fondarla: da studi mirati sui singoli alimenti (e sulle migliaia di sostanze attive che li caratterizzano) a ricerche epidemiologiche a vasto raggio che correlano la diffusione delle grandi «malattie del secolo» a stili alimentari.

Era tempo, insomma, di riordinare la mole dei risultati acquisiti, e proporla al di fuori dei «cenacoli» della scienza. Lo fa, muovendosi con perizia fra una grande quantità di informazioni (3162 riferimenti bibliografici) Nico Valerio: divulgatore già noto per la sua manualistica che propone con il suo Manuale di Terapie con gli alimenti, la sua opera più ambiziosa e significativa.

Il manuale ripercorre, in oltre 700 pagine, 30 grandi monografie su sindromi, disturbi, problemi per i quali è ipotizzata una azione terapeutica degli alimenti: spesso preventiva (dal grande capitolo sui tumori ai preziosi studi sulle diete cariogene), a volte proponibile come vero rimedio per una auto medicazione parallela all'intervento medico. Le monografie si misurano con temi al centro dell'indagine scientifica: dall'Aids al colesterolo, dall'obesità al tabagismo. Un indice dettagliato di oltre 150 voci, all'inizio del volume, riporta oltre alle voci principali anche le voci «secondarie», patologie collegate o denominazioni popolari.

Il manuale è stato realizzato in modo da consentire livelli diversi di lettura; ed è quindi utile sia al medico di base che vi trova dati affidabili, sintetici, esposti criticamente, riferibili a una bibliografia qualificata; sia alle più varie categorie di consulenti e operatori, dal dietista, all'erborista, all'addetto dei centri di alimentazione naturale; sia al consumatore responsabile che vuole iniziare a tavola la cura della propria salute. Ogni capitolo propone una descrizione precisa ma sommaria del problema o della sindrome, con il dettaglio delle. manifestazioni dei sintomi; gli alimenti più indicati vengono elencati di norma in ordine decrescente di efficacia o di praticità nell'uso o di reperibilità (con un chiaro riferimento ad eventuali cautele o controindicazioni). La sezione centrale «terapia e prevenzione con gli alimenti» presenta in modo sintetico le più recenti acquisizioni della ricerca, e talora dialetticamente contrapposte in base alle conclusioni a cui sono pervenute. Rimandi, sommarietti a margine, riferimenti bibliografici intessono l'opera rendendola più ricca e più viva.

Non un manuale per l'auto diagnosi o l'auto cura, avverte giustamente l'autore: ma di certo un'opera che orienta e rende consapevoli. La miglior cura è la prevenzione; e la miglior prevenzione inizia a tavola. (m. b.)

NICO VALERIO, Manuale di terapia con gli alimenti, SuperManuali Mondadori, pagg.740, lire 25.000.

AGGIORNATO IL 13 SETTEMBRE 2021

 

“LA TAVOLA degli Antichi” recensita da Lidia Storoni Mazzolani su Repubblica.

 UN SAGGIO SULLE ABITUDINI ALIMENTARI DEGLI ANTICHI 

A TAVOLA CON LUCULLO

LIDIA STORONI, La Repubblica, 3 ottobre 1989 

DEGLI antichi ormai sappiamo tutto. La serie di volumi intitolata «La vita quotidiana» ci ha informati sui costumi, le abitudini degli uomini e delle donne d'altri tempi e d'altri paesi: egiziani e cretesi, ateniesi ed etruschi, romani e ostiensi possiamo seguirli ora per ora nelle loro varie attività, in tribunale, a teatro, al circo, nelle nozze, ai funerali, nei banchetti. E' carente però l'informazione sulla loro alimentazione; dei romani conosciamo meglio il codice che la gastronomia, che le ricette della loro cucina.

Sopperisce a questa lacuna uno studioso dell'alimentazione con un volumetto che, dietro un tono scherzoso, cela una preparazione rigorosa (Nico Valerio, La tavola degli antichi. In cucina con i Faraoni, con Pericle e Lucullo, con Nerone e Messalina, Mondadori, pagg. 318, lire 10.000). Se ne trae la constatazione, ovvia, che molte cose sono cambiate nei secoli – gli antichi non conoscevano il tè, il caffè, il cacao, gli alcoolici tranne il vino e la birra, le patate, le melanzane, i carciofi, i pomodori, i fagioli – ma, allo stesso tempo, riconosciamo un'aria di famiglia in molte pietanze, una continuità che è venuta meno in altri aspetti della vita. Forse questo si deve al fatto che molti ingredienti sono gli stessi di allora; e ci colpisce il lessico culinario. Come avviene con le fiabe raccontate ai bambini, la trasmissione orale è quella che perdura più immutata.

L'autore incomincia dalla preistoria. Prima di costruire capanne e intrecciare contenitori di giunchi, prima di allevare animali e coltivare piante, mentre gli uomini andavano a caccia le donne dell'età della pietra trascorrevano la loro giornata a raccogliere more, ghiande, bacche, radici, miele, insetti (pare che le cavallette arrosto abbiano un alto potere nutritivo), a togliere uova dai nidi e catturare piccoli animali nel bosco. Poi, impararono ad addomesticare capre e pecore, a seminare farro, miglio e orzo. Quando cominciarono ad avere un focolare, arrostirono la carne allo spiedo; il bollito, che richiede attrezzi più elaborati, venne dopo.

Furono gli egiziani a inventare il pane. Lo impastavano con i piedi, lo facevano lievitare, lo cuocevano tra pietre arroventate; ma la farina era di chicchi di farro, di orzo, di miglio. Cerere tardò molto a insegnare agli uomini la coltura di quelli che portano il suo nome, i cereali: a Roma, nella cerimonia nuziale tra patrizi – la classe conservatrice – , gli sposi consumavano una focaccia di farro (confarreatio), per rispetto all'uso antico.

In tutto il Mediterraneo si consumavano farinate simili alla nostra polenta, fatte anche di purea di ceci e fave, e focacce tipo l'emiliana piadina (le stiacce toscane). Si faceva largo uso di cipolle, aglio e delle erbe odorose spontanee, come la malva, la menta, l'origano, il timo, il rosmarino. Plinio nomina un migliaio di erbe commestibili, molte di più di quelle che conosciamo noi; Catone raccomanda il cavolo e Cincinnato mangiava rape

L'olio fu usato tardi come condimento (non ce n'è traccia nell'Iliade); i greci appresero da siriani e giudei a selezionare l'olivo dagli olivastri selvatici; era così prezioso che quando pronunciava il giuramento che faceva d'un efebo un cittadino, il giovane chiamava a testimoni «gli dèi, i confini della patria, il grano, l'orzo, le viti, i fichi, gli olivi»: gli alimenti fondamentali. Nell'Iliade non vediamo mai gli eroi consumare pesce; eppure, negli affreschi di Santorini è raffigurato un pescatore che porta un mucchio di pesci appesi a un gancio e sui vasi di Creta e di Pylos sono dipinti polpi che li avvolgono con i tentacoli; gli stessi che si vedono, sott'olio, nelle trattorie del Pireo. 

Il castagnaccio amato dagli Etruschi

In Grecia si preparano ancora oggi involtini di foglie di vite, i dolmades; si cuoce carne allo spiedo su bracieri portatili fuori ella porta di casa (il suvlaki); si beve, come nell'antichítà, un vino, retsina, impregnato dell'odore di resina, con la quale veniva spalmato l'interno degli otri di pelle. E si vendono ancora, ad Atene come a Lecce e a Otranto, biscotti d'orzo che rievocano il pane d'allora; si consuma, come gli antichi, formaggio, agnello, coniglio, selvaggina (non più carne d'asino o di cane); ad Atene si vendeva per le strade un tortino fatto d'olive, detto sampsa, nome che perdura nella voce sansa.

La dieta degli Etruschi, che nelle statue sepolcrali appaiono obesi, non si differenziava da quella degli altri popoli mediterranei: polentine di legumi o cereali tostati e macinati, ortaggi, pesce, animali da cortile, selvaggina. Chi non ha visto, in una tomba di Tarquinia, l'immagine d'un cacciatore che scocca frecce contro gli uccelli, mentre un pescatore si china sulla sponda della barca per vedere, nell'acqua limpida, se un pesce ha abboccato alla sua lenza? Secondo un'ipotesi non provata, furono gli Etruschi a introdurre il castagno, che copre i colli dell'Alto Lazio; è certamente una pietanza arcaica il castagnaccio, infarcito di uva passa e pinoli, steso su una vasta teglia circolare.

A Roma, i pastori nomadi che si insediavano con le greggi sul colli, già dal XVI secolo a.C. facevano, come si desume dagli attrezzi trovati, il burro; oltre agli uccelli acquatici che sorvolavano gli acquitrini del Foro, certamente consumavano latticini: la ricotta fatta all'aperto dai pastori che, prima della plastica, la conservavano nella «fiscella» di giunchi intrecciati. La pecora doveva esser pregiata come alimento, oltre che per il latte e la lana, tanto che, prima dell'introduzione della moneta, serviva per lo scambio con i mercanti approdati all'isola Tiberina (lo provano i vocaboli che ne derivano: da pecus, pecunia, peculio, peculato). Un ingrediente prezioso, che ha fatto la fortuna di Roma, era il sale, portato da Ostia sul Tevere o sulla via Salaria, che correva lungo la sponda sinistra del fiume e in seguito proseguì fino alla Sabina. Serviva anch'esso per scambi e pagamenti (donde la voce salario).

I romani consumavano molte fave, cibo energetico adatto ai lavoratori, inspiegabilmente legato a riti religiosi e ritenuto l'alimento (o addirittura la dimora) dei defunti; a Roma attualmente si confezionano fave dolci il giorno dei morti. Con i chicchi di farro tostato e macinato le Vestali preparavano la mola salsa, una polvere con la quale si cospargeva il capo degli animali da sacrificio (donde il vocabolo immolare); sulla polenta, fatta di cereali o legumi macinati, si versava una salsa composta di ingredienti varii, olive, acciughe, formaggio: la satyra, che secondo alcuni ha dato il nome a un componimento poetico di genere misto. E doveva essere indigesta, tanto da sentirsi sazi (saturi) dopo averla mangiata.

Il pane, una focaccia non lievitata tipo galletta, veniva cotto al forno nella stanza detta atrio (da ater = nero, perché il focolare non aveva canna fumaria) e spesso era insaporito con semi di anice o finocchio. I braccianti di Catone il Censore (III secolo a.C.) percepivano come paga 875 grammi di grano al giorno, gli schiavi incatenati, che eseguivano lavori pesanti, qualcosa di più. Il companatico consisteva in olive, aceto, sale, pochissimo olio e frutta di scarto.

Il rancio dei militari era la stessa dose di grano, con il lardo proveniente dalla Lucania (la luganega); bevevano acqua e aceto (non fu dunque crudeltà gratuita il gesto del legionario che porse a Cristo in croce la spugna intrisa d'aceto). Durante l'impero diventò abituale un provvedimento iniziato in momenti di carestia, e cioè la distribuzione gratuita dì pane ad assistiti, che nel IV secolo ammontavano a 200.000.

A Ponza vivai nelle grotte

La carne era un alimento di lusso e si consumava quasi sempre bollita, perché gli animali da macello erano vecchi (nelle XII Tavole, V secolo a.C., è prevista addirittura la pena di morte o l'esilio per chi macella un animale giovane e sano); più tardi si imparò a mangiare pesce, allevato nelle isole (a Ponza sono visibili gli antichi vivai nelle grotte); quando il consumismo dei ricchi divenne sfrenato, si costruirono, oltre che voliere per uccelli esotici, vivai a domicilio, le piscine; il pranzo, di cui Valerio fornisce vari menu, incominciava con un antipasto in cui figuravano immancabilmente le uova – di qui ha origine la frase ab ovo, così come da Licinio Murena, il primo che le fece conoscere, hanno preso il nome le murene (Cesare ne offrì 6000 in un pranzo al popolo).

Nel Lazio, oggi, le donne chiamano «testo» la pentola di coccio, come le remote massaie di Roma antica; un quartiere di Roma, il Testaccio, ha preso il nome da un colle formato da un cumulo di cocci rotti, le anfore buttate via al momento dello scarico delle navi. Le parole attraverso umili sentieri ci conducono agli odori, ai sapori della nostra gente.

LIDIA STORONI

29 luglio 2021

“LA TAVOLA degli Antichi” recensita da Debenedetti sul Corriere della Sera.

 

ERBE RUSTICHE, FORMAGGIO ALL'AGLIO, TRENTA QUALITÀ DI MELE PER UNA CUCINA PIÙ SANA 

SCOPERTA L’ANTICA DIETA DI GIULIO CESARE 

ANTONIO DEBENEDETTI, Corriere della Sera, 29 luglio 1989

Nei romanzi del secolo scorso si mangia molto e si mangia troppo saporito. Nessun medico consiglierebbe oggi di seguire quelle diete ricche di profumati ripieni, di ghiotte selvaggine, di fritture e di dolci, che trovano i loro complici naturali in vini fra robusti e insidiosamente vellutati. Gli scrittori di questi nostri anni soffrono viceversa, dal più al meno, d'un atteggiamento di distaccata sufficienza nei confronti della buona cucina: i loro personaggi si siedono frettolosamente a tavola, evitando generalmente di soffermarsi sul menu.

Molto più consigliabili, a scorrere il ricettario «De re coquinaria» di Apicio o le pagine dei classici (da Plinio a Ateneo di Naucrati, da Catone a Archestrato di Gela volendo escludere l'orgiastico Petronio), ci appaiono viceversa i menu dell'antica Roma. I quali, con un po' d'immaginazione, precorrono quei gusti e quelle mode gastronomiche dell'oggi, che all'appetitoso recupero degli alimenti naturali associano efficaci campagne contro colesterolo, trigliceridi e altri pericolosi inquilini del nostro sangue.

Per chi voglia soddisfare piccole e grandi curiosità, spaziando fra storia della gastronomia e elementi derivati dalla ricerca antropologica, è adesso disponibile un vasto affresco eloquentemente intitolato «La tavola degli antichi» ovvero «In cucina con i Faraoni, con Pericle e Lucullo, con Nerone e Messalina»: sono 328 pagine molto fitte che escono in prima edizione, con evidenti finalità divulgative e di colto intrattenimento, negli Oscar Mondadoriani (lire 10.000). Autore è il quarantacinquenne Nico Valerio: studioso di alimentazione: ha già dato alle stampe saggi come «Tutto crudo», «Il piatto verde» e via così.

Per cominciare, anche nella lettura, nulla di meglio d'un antipasto «naturale» desunto dalla lettura dei prosatori latini: insalata di erbe rustiche, tartine spalmate d'un impasto di formaggio, sedano, aglio, ruta, coriandolo, olio e aceto. Non mancano olive e schegge di formaggio pecorino. Per secondo si può scegliere, accoppiando carni e verdure: agnello al forno, lesso di mare alle erbe, arrosto al miele, cardi in umido, porri gratinati al forno, malva alla Cicerone, broccoli stufati.

Il dessert non può certo dirsi sguarnito: mostaccioli, panini all'uva, purea di mele cotogne, frittelle. La fruttiera, poi, è stracolma: mele di trenta o quaranta diverse qualità, pere, fichi, uva. Quanto ai vini c'è solo l'imbarazzo della scelta: mezzo litro d'un «d.o.c» costa sui 30 denari, la stessa quantità d'un vino superiore ma non straordinario si paga 24 denari. Mezzo litro di vino ordinario, secondo il prezzario imposto nel 301 d.C. dall'imperatore Diocleziano, non supera il costo al dettaglio di 8 denari. I tipi disponibili, secondo una tabella pubblicata da Valerio, sono oltre trenta. Vino? Bisogna intendersi al riguardo: i «d.o.c.» degli antichi romani, dopo essere stati affumicati per giorni nel fumarium, vengono «aromatizzati con nardo di Siria o celtico, rosa, giunco odoroso, fiori di sambuco e di iris, coriandolo, semi di sedano, anice, mandorle amare, cannella.

A tutto questo si mescola, quale correttivo dell'amaro e dell'acido, il miele. Quasi non bastasse, il cocktail così ottenuto finisce a invecchiare in botti spalmate di pece greca o di resina di pino. Non stupisce, dunque, che i bevitori legali, cioè «gli uomini maturi e i vecchi», gustino il loro Albano o il loro Cecubo, il loro Falerno o il loro Labicano annacquati con due terzi o addirittura con tre quarti d'acqua. Nella calura dell'estate, poi, la soldataglia combatte l'arsura con acqua corretta all'aceto. Le signore ricorrono a una bibita di latte arricchito con sedano e crescione. Alle giovani vergini, che s'apprestano alla loro prima notte d'amore, si offre un decotto analgesico a base di papavero, il cocetum. Una cucina più sana e appetitosa dell'attuale, s'è detto.

Le duecento ricette (mancano fortunatamente quelle relative alla preparazione delle pur diffuse pietanze a base di topo o di cane), che figurano in appendice alle pagine dello scorrevole testo di Valerio (e oggi chiunque può ripeterle senza troppa fatica), non sono soltanto una curiosità o un invito a ritrovare insieme con il ricercatore, con l'archeologo antiche golosità. Valgono una dimostrazione. I nostri antenati mediterranei non conoscevano alimenti oggi giudicati indispensabili come il mandarino o la melanzana, la patata o il pomodoro, il carciofo o il fagiolo, il caffè o la cioccolata. Avevano dalla loro una quantità enorme di piante, tuttavia, che rendeva molto più variati, più sorprendenti  sapori della loro tavola. In buona armonia con una natura che ospitava ancora, fin sulle rive del Tevere, il cervo e il capriolo, il lupo e il massiccio orso bruno.

ANTONIO DEBENEDETTI

13 luglio 2021

INGHILTERRA ardita e arrogante. Ma quel mito snob è già finito da un pezzo.

Da ragazzo ero un anglofilo di ferro, sulla scia del mio Cavour, che però l’Inghilterra l’amava sul piano politico-istituzionale e dei diritti politici, cioè delle garanzie individuali rispetto alla Chiesa e al Re, e anche per il coraggio, lo spirito d’iniziativa, là diffusissimo e da noi carente. Non so che cosa pensasse degli Inglesi come persone e come popolo: bisognerebbe leggere le sue migliaia di lettere. Avrà già notato quanto, simili a noi per individualismo, ma opposti per amore connaturato del rischio e del comando, erano e sono altezzosi e insopportabili con le persone e i popoli che giudicano inferiori? Parlatene con gli Indiani.
      Ad ogni modo, di quella infatuazione mi è rimasta una MG antica, peraltro ideata e costruita così così, e con una taccagneria unica, per quello che costava; e anzi il club omonimo che ho contribuito a fondare ci invita per lettera come "Mister", non come “Signori”, neanche fossimo tutti Commissari Tecnici di una squadra di calcio, cioè, volevo dire di "football". come se l'avessero inventato loro e non noi Toscani e Italiani, ereditandolo dai Romani che lo giocavano perfino negli accampamenti delle Legioni (anche lo stesso Augusto).
      Ma q
ueste pacchianate provinciali un po' servili (noi Italiani siamo tagliati per la  xenofilia), come la puree francese che deriva dalla porréa della torta di porri fiorentina, o l’estragon che le nostre signore snob hanno sulla bocca e comperano a caro prezzo, senza sapere che è il dragoncello che l’italiana De’ Medici regina di Francia importò a Parigi), non valgono la candela, come le terribili scarpe pesanti Clarks da vecchio farmer che comperai a Londra, dalla suola così spessa e robusta che non si piegava nella camminata. Tra l'altro la tomaia si ruppe subito.
      In realtà bisogna arrivare alla maturità per capire che la tanto strombazzata libertà degli Inglesi è solo la "loro" libertà di popolo duro e insofferente del dominio (e regole) altrui. Ma attenzione ho sempre detto che anche Stalin e Mussolini ci tenevano alla proprio libertà.
      Avrebbe dovuto metterci sull'avviso che non hanno mai perso una guerra in tempi moderni, favoriti anche dalla insularità e dal timore reverenziale abilmente diffuso in tutto il Mondo grazie ai domini di Paese coloniale per eccellenza. Tutto hanno trafugato, tutti i Paesi "inferiori" hanno violentato dall'India all'Irlanda alle colonie Americane. Lasciandosi dietro una lunga scia di odio secolare, anche per il tratto insopportabile, imperioso, arrogante e inutilmente crudele che ostentano individualmente. Gli Americani se lo ricordano bene, anche se come tutti oggi sono affascinati dal loro insopportabile snobismo. Il paradosso d’un intero "popolo di mercanti", come lo definì qualcuno, abilissimi però, a differenza dei "mercanti" Italiani, molto meno intraprendenti e coraggiosi, che si finge aristocratico o almeno snob. Insopportabile.
      Ripeto, anche per i tanti pseudo-liberali italiani, che quando si parla solo della propria libertà si è spesso inclini a forzare quella altrui. E infatti non conosco popolo più prepotente e strafottente di quello inglese. Loro hanno sempre ragione, dai consessi internazionali al pub; loro si permettono qualsiasi ironia accondiscendente verso gli altri, specie Italiani. Loro giudicano quello che è giusto e ingiusto, ma non devono mai essere giudicati (e questo vizio ce l'hanno anche gli Americani, che credono di essere i Nuovi Romani).
      Solo i più falsi o cretini tra gli politicanti Europei potevano illudersi di costringere la Gran Bretagna a una Unione con altri Paesi in cui non avesse il comando unico e supremo. Più ancora dei cugini popolari Americani, loro non solo non devono mai obbedire e devono sempre comandare gli altri; ma non devono mai perdere in nessuna contesa. E fosse solo nel foot-ball, come si è visto prima e dopo la finale della Coppa europea tra Inghilterra e Italia, a Londra, con i giocatori inglesi che per stizza, quasi fosse un disonore, si tolgono la medaglia del secondo posto sotto gli occhi della Giuria, dopo che i loro tifosi avevano calpestato la bandiera italiana e malmenato turisti avversari! Gesti anti-sportivi che se fossero stati compiuti da altre squadre avrebbeto causato chissà quali penalità. Non solo, ma a distanza di giorni hanno disdetto vacanze in Italia, boicottato i ristoranti italiani a Londra e perfino indetto una petizione per "rigiocare" la partita. Insomma, ormai è chiaro: gli Inglesi, molto, molto più degli stessi Americani, non prevedono mai di perdere, e non sanno perdere. In ogni campo.
      Vi ricordate con quante spese e quanta ridicola furia furono inviati armati fino ai denti dalla "casalinga Thathcher", quasi una macchietta satirica del tipico Capo di Governo inglese rudemente decisionista (senza peraltro essere né un Gladstone, né un Churchill), a riconquistare gli isolotti freddi, aridi e sperduti delle Falklands-Malvinas che un idiota governo argentino aveva riconquistato in cerca di avventure nazionalistiche che distraessere il popolo-bue dal disastro economico? E i tanti stolti Europidi ancora si meravigliano della Brexit! Piuttosto, avrebbero dovuto meravigliarsi molto (e sospettare) quando Inghilterra e Regno Unito aderirono all'Unione Europea, giustamente senza lo stolto suicidio della propria moneta. 
      Con un popolo insieme così coraggioso, nazionalista, orgoglioso, individualista, sprezzante e meschino, gli Inglesi, e tutti i Britannici, sono gli unici a potersi paradossalmente permettere Governi deboli.

AGGIORNATO IL 18 LUGLIO 2021