UN SAGGIO SULLE ABITUDINI
ALIMENTARI DEGLI ANTICHI
A TAVOLA
CON LUCULLO
LIDIA STORONI, La Repubblica, 3 ottobre 1989
DEGLI antichi
ormai sappiamo tutto. La serie di volumi intitolata «La vita quotidiana» ci ha
informati sui costumi, le abitudini degli uomini e delle donne d'altri tempi e
d'altri paesi: egiziani e cretesi, ateniesi ed etruschi, romani e ostiensi possiamo
seguirli ora per ora nelle loro varie attività, in tribunale, a teatro, al
circo, nelle nozze, ai funerali, nei banchetti. E' carente però l'informazione
sulla loro alimentazione; dei romani conosciamo meglio il codice che la
gastronomia, che le ricette della loro cucina.
Sopperisce a questa lacuna uno studioso dell'alimentazione con
un volumetto che, dietro un tono scherzoso, cela una preparazione rigorosa
(Nico Valerio, La tavola degli antichi.
In cucina con i Faraoni, con Pericle e Lucullo, con Nerone e Messalina, Mondadori,
pagg. 318, lire 10.000). Se ne trae la constatazione, ovvia, che molte cose
sono cambiate nei secoli – gli antichi non conoscevano il tè, il caffè, il
cacao, gli alcoolici tranne il vino e la birra, le patate, le melanzane, i
carciofi, i pomodori, i fagioli – ma, allo stesso tempo, riconosciamo un'aria
di famiglia in molte pietanze, una continuità che è venuta meno in altri
aspetti della vita. Forse questo si deve al fatto che molti ingredienti sono
gli stessi di allora; e ci colpisce il lessico culinario. Come avviene con le
fiabe raccontate ai bambini, la trasmissione orale è quella che perdura più
immutata.
L'autore incomincia dalla preistoria. Prima di
costruire capanne e intrecciare contenitori di giunchi, prima di allevare
animali e coltivare piante, mentre gli uomini andavano a caccia le donne
dell'età della pietra trascorrevano la loro giornata a raccogliere more,
ghiande, bacche, radici, miele, insetti (pare che le cavallette arrosto abbiano
un alto potere nutritivo), a togliere uova dai nidi e catturare piccoli animali
nel bosco. Poi, impararono ad addomesticare capre e pecore, a seminare farro, miglio
e orzo. Quando cominciarono ad avere un focolare, arrostirono la carne allo
spiedo; il bollito, che richiede attrezzi più elaborati, venne dopo.
Furono gli egiziani a inventare il pane. Lo impastavano con i
piedi, lo facevano lievitare, lo cuocevano tra pietre arroventate; ma la farina
era di chicchi di farro, di orzo, di miglio. Cerere tardò molto a insegnare
agli uomini la coltura di quelli che portano il suo nome, i cereali: a Roma,
nella cerimonia nuziale tra patrizi – la classe conservatrice – , gli sposi consumavano
una focaccia di farro (confarreatio), per
rispetto all'uso antico.
In tutto il Mediterraneo si consumavano farinate
simili alla nostra polenta, fatte anche di purea di ceci e fave, e focacce tipo
l'emiliana piadina (le stiacce toscane). Si faceva largo uso di cipolle, aglio
e delle erbe odorose spontanee, come la malva, la menta, l'origano, il timo, il
rosmarino. Plinio nomina un migliaio di erbe commestibili, molte di più di
quelle che conosciamo noi; Catone raccomanda il cavolo e Cincinnato mangiava
rape
L'olio fu usato tardi come condimento (non ce n'è
traccia nell'Iliade); i greci appresero da siriani e giudei a selezionare
l'olivo dagli olivastri selvatici; era così prezioso che quando pronunciava il
giuramento che faceva d'un efebo un cittadino, il giovane chiamava a testimoni
«gli dèi, i confini della patria, il grano, l'orzo, le viti, i fichi, gli
olivi»: gli alimenti fondamentali. Nell'Iliade non vediamo mai gli eroi consumare
pesce; eppure, negli affreschi di Santorini è raffigurato un pescatore che porta
un mucchio di pesci appesi a un gancio e sui vasi di Creta e di Pylos sono dipinti
polpi che li avvolgono con i tentacoli; gli stessi che si vedono, sott'olio,
nelle trattorie del Pireo.
Il
castagnaccio amato dagli Etruschi
In Grecia si
preparano ancora oggi involtini di foglie di vite, i dolmades; si cuoce carne
allo spiedo su bracieri portatili fuori ella porta di casa (il suvlaki); si beve, come nell'antichítà,
un vino, retsina, impregnato
dell'odore di resina, con la quale veniva spalmato l'interno degli otri di
pelle. E si vendono ancora, ad Atene come a Lecce e a Otranto, biscotti d'orzo
che rievocano il pane d'allora; si consuma, come gli antichi, formaggio,
agnello, coniglio, selvaggina (non più carne d'asino o di cane); ad Atene si
vendeva per le strade un tortino fatto d'olive, detto sampsa, nome che perdura nella voce sansa.
La dieta degli Etruschi, che nelle statue sepolcrali
appaiono obesi, non si differenziava da quella degli altri popoli mediterranei:
polentine di legumi o cereali tostati e macinati, ortaggi, pesce, animali da
cortile, selvaggina. Chi non ha visto, in una tomba di Tarquinia, l'immagine
d'un cacciatore che scocca frecce contro gli uccelli, mentre un pescatore si
china sulla sponda della barca per vedere, nell'acqua limpida, se un pesce ha
abboccato alla sua lenza? Secondo un'ipotesi non provata, furono gli Etruschi a
introdurre il castagno, che copre i colli dell'Alto Lazio; è certamente una
pietanza arcaica il castagnaccio, infarcito di uva passa e pinoli, steso su una
vasta teglia circolare.
A Roma, i pastori nomadi che si insediavano con le
greggi sul colli, già dal XVI secolo a.C. facevano, come si desume dagli
attrezzi trovati, il burro; oltre agli uccelli acquatici che sorvolavano gli
acquitrini del Foro, certamente consumavano latticini: la ricotta fatta
all'aperto dai pastori che, prima della plastica, la conservavano nella «fiscella»
di giunchi intrecciati. La pecora doveva esser pregiata come alimento, oltre
che per il latte e la lana, tanto che, prima dell'introduzione della moneta,
serviva per lo scambio con i mercanti approdati all'isola Tiberina (lo provano
i vocaboli che ne derivano: da pecus, pecunia, peculio, peculato). Un ingrediente
prezioso, che ha fatto la fortuna di Roma, era il sale, portato da Ostia sul
Tevere o sulla via Salaria, che correva lungo la sponda sinistra del fiume e in
seguito proseguì fino alla Sabina. Serviva anch'esso per scambi e pagamenti
(donde la voce salario).
I romani consumavano molte fave, cibo energetico adatto ai
lavoratori, inspiegabilmente legato a riti religiosi e ritenuto l'alimento (o
addirittura la dimora) dei defunti; a Roma attualmente si confezionano fave
dolci il giorno dei morti. Con i chicchi di farro tostato e macinato le Vestali
preparavano la mola salsa, una
polvere con la quale si cospargeva il capo degli animali da sacrificio (donde
il vocabolo immolare); sulla polenta, fatta di cereali o legumi macinati, si versava
una salsa composta di ingredienti varii, olive, acciughe, formaggio: la satyra, che secondo alcuni ha dato il
nome a un componimento poetico di genere misto. E doveva essere indigesta,
tanto da sentirsi sazi (saturi) dopo averla mangiata.
Il pane, una focaccia non lievitata tipo galletta,
veniva cotto al forno nella stanza detta atrio (da ater = nero, perché il
focolare non aveva canna fumaria) e spesso era insaporito con semi di anice o
finocchio. I braccianti di Catone il Censore (III secolo a.C.) percepivano come
paga 875 grammi di grano al giorno, gli schiavi incatenati, che eseguivano
lavori pesanti, qualcosa di più. Il companatico consisteva in olive, aceto,
sale, pochissimo olio e frutta di scarto.
Il rancio dei militari era la stessa dose di grano,
con il lardo proveniente dalla Lucania (la luganega); bevevano acqua e aceto
(non fu dunque crudeltà gratuita il gesto del legionario che porse a Cristo in
croce la spugna intrisa d'aceto). Durante l'impero diventò abituale un provvedimento
iniziato in momenti di carestia, e cioè la distribuzione gratuita dì pane ad
assistiti, che nel IV secolo ammontavano a 200.000.
A Ponza vivai nelle grotte
La carne era
un alimento di lusso e si consumava quasi sempre bollita, perché gli animali da
macello erano vecchi (nelle XII Tavole, V secolo a.C., è prevista addirittura
la pena di morte o l'esilio per chi macella un animale giovane e sano); più
tardi si imparò a mangiare pesce, allevato nelle isole (a Ponza sono visibili
gli antichi vivai nelle grotte); quando il consumismo dei ricchi divenne
sfrenato, si costruirono, oltre che voliere per uccelli esotici, vivai a
domicilio, le piscine; il pranzo, di cui Valerio fornisce vari menu, incominciava con un antipasto in
cui figuravano immancabilmente le uova – di qui ha origine la frase ab ovo, così come da Licinio Murena, il
primo che le fece conoscere, hanno preso il nome le murene (Cesare ne offrì
6000 in un pranzo al popolo).
Nel Lazio, oggi, le donne chiamano «testo» la pentola
di coccio, come le remote massaie di Roma antica; un quartiere di Roma, il
Testaccio, ha preso il nome da un colle formato da un cumulo di cocci rotti, le
anfore buttate via al momento dello scarico delle navi. Le parole attraverso
umili sentieri ci conducono agli odori, ai sapori della nostra gente.
LIDIA STORONI