30 luglio 2021

“LA TAVOLA degli Antichi” recensita da Lidia Storoni Mazzolani su Repubblica.

 UN SAGGIO SULLE ABITUDINI ALIMENTARI DEGLI ANTICHI 

A TAVOLA CON LUCULLO

LIDIA STORONI, La Repubblica, 3 ottobre 1989 

DEGLI antichi ormai sappiamo tutto. La serie di volumi intitolata «La vita quotidiana» ci ha informati sui costumi, le abitudini degli uomini e delle donne d'altri tempi e d'altri paesi: egiziani e cretesi, ateniesi ed etruschi, romani e ostiensi possiamo seguirli ora per ora nelle loro varie attività, in tribunale, a teatro, al circo, nelle nozze, ai funerali, nei banchetti. E' carente però l'informazione sulla loro alimentazione; dei romani conosciamo meglio il codice che la gastronomia, che le ricette della loro cucina.

Sopperisce a questa lacuna uno studioso dell'alimentazione con un volumetto che, dietro un tono scherzoso, cela una preparazione rigorosa (Nico Valerio, La tavola degli antichi. In cucina con i Faraoni, con Pericle e Lucullo, con Nerone e Messalina, Mondadori, pagg. 318, lire 10.000). Se ne trae la constatazione, ovvia, che molte cose sono cambiate nei secoli – gli antichi non conoscevano il tè, il caffè, il cacao, gli alcoolici tranne il vino e la birra, le patate, le melanzane, i carciofi, i pomodori, i fagioli – ma, allo stesso tempo, riconosciamo un'aria di famiglia in molte pietanze, una continuità che è venuta meno in altri aspetti della vita. Forse questo si deve al fatto che molti ingredienti sono gli stessi di allora; e ci colpisce il lessico culinario. Come avviene con le fiabe raccontate ai bambini, la trasmissione orale è quella che perdura più immutata.

L'autore incomincia dalla preistoria. Prima di costruire capanne e intrecciare contenitori di giunchi, prima di allevare animali e coltivare piante, mentre gli uomini andavano a caccia le donne dell'età della pietra trascorrevano la loro giornata a raccogliere more, ghiande, bacche, radici, miele, insetti (pare che le cavallette arrosto abbiano un alto potere nutritivo), a togliere uova dai nidi e catturare piccoli animali nel bosco. Poi, impararono ad addomesticare capre e pecore, a seminare farro, miglio e orzo. Quando cominciarono ad avere un focolare, arrostirono la carne allo spiedo; il bollito, che richiede attrezzi più elaborati, venne dopo.

Furono gli egiziani a inventare il pane. Lo impastavano con i piedi, lo facevano lievitare, lo cuocevano tra pietre arroventate; ma la farina era di chicchi di farro, di orzo, di miglio. Cerere tardò molto a insegnare agli uomini la coltura di quelli che portano il suo nome, i cereali: a Roma, nella cerimonia nuziale tra patrizi – la classe conservatrice – , gli sposi consumavano una focaccia di farro (confarreatio), per rispetto all'uso antico.

In tutto il Mediterraneo si consumavano farinate simili alla nostra polenta, fatte anche di purea di ceci e fave, e focacce tipo l'emiliana piadina (le stiacce toscane). Si faceva largo uso di cipolle, aglio e delle erbe odorose spontanee, come la malva, la menta, l'origano, il timo, il rosmarino. Plinio nomina un migliaio di erbe commestibili, molte di più di quelle che conosciamo noi; Catone raccomanda il cavolo e Cincinnato mangiava rape

L'olio fu usato tardi come condimento (non ce n'è traccia nell'Iliade); i greci appresero da siriani e giudei a selezionare l'olivo dagli olivastri selvatici; era così prezioso che quando pronunciava il giuramento che faceva d'un efebo un cittadino, il giovane chiamava a testimoni «gli dèi, i confini della patria, il grano, l'orzo, le viti, i fichi, gli olivi»: gli alimenti fondamentali. Nell'Iliade non vediamo mai gli eroi consumare pesce; eppure, negli affreschi di Santorini è raffigurato un pescatore che porta un mucchio di pesci appesi a un gancio e sui vasi di Creta e di Pylos sono dipinti polpi che li avvolgono con i tentacoli; gli stessi che si vedono, sott'olio, nelle trattorie del Pireo. 

Il castagnaccio amato dagli Etruschi

In Grecia si preparano ancora oggi involtini di foglie di vite, i dolmades; si cuoce carne allo spiedo su bracieri portatili fuori ella porta di casa (il suvlaki); si beve, come nell'antichítà, un vino, retsina, impregnato dell'odore di resina, con la quale veniva spalmato l'interno degli otri di pelle. E si vendono ancora, ad Atene come a Lecce e a Otranto, biscotti d'orzo che rievocano il pane d'allora; si consuma, come gli antichi, formaggio, agnello, coniglio, selvaggina (non più carne d'asino o di cane); ad Atene si vendeva per le strade un tortino fatto d'olive, detto sampsa, nome che perdura nella voce sansa.

La dieta degli Etruschi, che nelle statue sepolcrali appaiono obesi, non si differenziava da quella degli altri popoli mediterranei: polentine di legumi o cereali tostati e macinati, ortaggi, pesce, animali da cortile, selvaggina. Chi non ha visto, in una tomba di Tarquinia, l'immagine d'un cacciatore che scocca frecce contro gli uccelli, mentre un pescatore si china sulla sponda della barca per vedere, nell'acqua limpida, se un pesce ha abboccato alla sua lenza? Secondo un'ipotesi non provata, furono gli Etruschi a introdurre il castagno, che copre i colli dell'Alto Lazio; è certamente una pietanza arcaica il castagnaccio, infarcito di uva passa e pinoli, steso su una vasta teglia circolare.

A Roma, i pastori nomadi che si insediavano con le greggi sul colli, già dal XVI secolo a.C. facevano, come si desume dagli attrezzi trovati, il burro; oltre agli uccelli acquatici che sorvolavano gli acquitrini del Foro, certamente consumavano latticini: la ricotta fatta all'aperto dai pastori che, prima della plastica, la conservavano nella «fiscella» di giunchi intrecciati. La pecora doveva esser pregiata come alimento, oltre che per il latte e la lana, tanto che, prima dell'introduzione della moneta, serviva per lo scambio con i mercanti approdati all'isola Tiberina (lo provano i vocaboli che ne derivano: da pecus, pecunia, peculio, peculato). Un ingrediente prezioso, che ha fatto la fortuna di Roma, era il sale, portato da Ostia sul Tevere o sulla via Salaria, che correva lungo la sponda sinistra del fiume e in seguito proseguì fino alla Sabina. Serviva anch'esso per scambi e pagamenti (donde la voce salario).

I romani consumavano molte fave, cibo energetico adatto ai lavoratori, inspiegabilmente legato a riti religiosi e ritenuto l'alimento (o addirittura la dimora) dei defunti; a Roma attualmente si confezionano fave dolci il giorno dei morti. Con i chicchi di farro tostato e macinato le Vestali preparavano la mola salsa, una polvere con la quale si cospargeva il capo degli animali da sacrificio (donde il vocabolo immolare); sulla polenta, fatta di cereali o legumi macinati, si versava una salsa composta di ingredienti varii, olive, acciughe, formaggio: la satyra, che secondo alcuni ha dato il nome a un componimento poetico di genere misto. E doveva essere indigesta, tanto da sentirsi sazi (saturi) dopo averla mangiata.

Il pane, una focaccia non lievitata tipo galletta, veniva cotto al forno nella stanza detta atrio (da ater = nero, perché il focolare non aveva canna fumaria) e spesso era insaporito con semi di anice o finocchio. I braccianti di Catone il Censore (III secolo a.C.) percepivano come paga 875 grammi di grano al giorno, gli schiavi incatenati, che eseguivano lavori pesanti, qualcosa di più. Il companatico consisteva in olive, aceto, sale, pochissimo olio e frutta di scarto.

Il rancio dei militari era la stessa dose di grano, con il lardo proveniente dalla Lucania (la luganega); bevevano acqua e aceto (non fu dunque crudeltà gratuita il gesto del legionario che porse a Cristo in croce la spugna intrisa d'aceto). Durante l'impero diventò abituale un provvedimento iniziato in momenti di carestia, e cioè la distribuzione gratuita dì pane ad assistiti, che nel IV secolo ammontavano a 200.000.

A Ponza vivai nelle grotte

La carne era un alimento di lusso e si consumava quasi sempre bollita, perché gli animali da macello erano vecchi (nelle XII Tavole, V secolo a.C., è prevista addirittura la pena di morte o l'esilio per chi macella un animale giovane e sano); più tardi si imparò a mangiare pesce, allevato nelle isole (a Ponza sono visibili gli antichi vivai nelle grotte); quando il consumismo dei ricchi divenne sfrenato, si costruirono, oltre che voliere per uccelli esotici, vivai a domicilio, le piscine; il pranzo, di cui Valerio fornisce vari menu, incominciava con un antipasto in cui figuravano immancabilmente le uova – di qui ha origine la frase ab ovo, così come da Licinio Murena, il primo che le fece conoscere, hanno preso il nome le murene (Cesare ne offrì 6000 in un pranzo al popolo).

Nel Lazio, oggi, le donne chiamano «testo» la pentola di coccio, come le remote massaie di Roma antica; un quartiere di Roma, il Testaccio, ha preso il nome da un colle formato da un cumulo di cocci rotti, le anfore buttate via al momento dello scarico delle navi. Le parole attraverso umili sentieri ci conducono agli odori, ai sapori della nostra gente.

LIDIA STORONI