LA SESTA RASSEGNA DI MUSICA FOLK
Contrade e regioni
d’Italia
I soggetti sono sempre gli
stessi, gli eterni contrasti tra mariti che faticano e mogli procaci
pronte a scappare col primo venuto. Napoli antica ed eterna nei suoi
motivi ispiratori
NICO VALERIO, Fiera Letteraria, 9 marzo 1975
UNA d
elle tante
scoperte di questa stagione romana è la musica, e non quella orgogliosa delle
sale da concerto, ma quella che si adatta ai teatrini scrostati, ai cabaret
smessi, che non sì vergogna di scendere nelle cantine del Settecento,
imbiancate magari per nascondere il salnitro. Non Bach né Casella,
naturalmente, nei meandri di questo vitalissimo
spleen della « Roma-sotto», semmai avanguardia europea (scorrazzano
da una cave all'altra il gruppo Nuove Forme Sonore di Schiaffini, il maestro
Guàccero, Fernando Grillo e Alvin Curran), musiche antiche, medioevali e
rinascimentali (Musica Insieme di Strazza-Tommaso-Zimmer-Tecardi), parecchio
jazz e tanta, tanta musica folklorica.
Delle avanguardie creative, dei gruppi di
ricerca storico-filologica (« vanno molto », specie tra gli stranieri residenti
a Roma, madrigali e piccanti canzoni d'amore del '500), dei variegati quartetti
di « musica totale » e di jazz che nidificano nelle anse intestinali di questo
underground romano - nel significato letterale, per carità - riferiremo
compiutamente in altra occasione, limitandoci per il momento a dare il giusto
rilievo ad una manifestazione ben più imponente, la 6.a edizione della « Rassegna
di musica popolare italiana » organizzata dal romano Folkstudio e durata oltre
15 giorni. L'originalità di questo festival-monstre consisteva anche in
un'inedita presentazione multipla dell'intero ciclo di concerti, con date
leggermente sfasate, a Roma, Milano, Bologna e Trieste. Anche queste repliche
in trasferta sono state curate e organizzate dal locale di Trastevere.
La rassegna ha naturalmente ottenuto il
successo di critica e di pubblico che meritava. Il Folkstudio - e Giancarlo
Cesaroni che ne è il direttore artistico lo ha ricordato con comprensibile compiacimento
nella presentazione - con 15 anni di attività è il più antico e
indiscutibilmente il più prestigioso locale italiano dedicato alla musica
popolare, regionale, nazionale e talvolta internazionale, e certo le
mistificazioni dell'ambiguo revival del folk, della musica popolare
ricostruita al banco di « mixage » dalle case discografiche, o degli
improbabili « autentici interpreti naifs » scovati in un autogrill dell’autostrada,
non vi trovano né spazio né pubblico, fortunatamente.
Proprio la maturità e
l'esperienza del pubblico del Folkstudio, però, avrebbero dovuto indurre il
preparatore del festival ad un minore eclettismo nelle scelte dei musicisti
da ospitare. Una presentazione per filoni culturali, quindi « verticale », o
comparata per periodi storici, cioè «
orizzontale », sarebbe stata certamente più scolastica ma non avrebbe
costretto il pubblico a vere e proprie acrobazie. E' capitato che il povero
critico si vedesse sbattuto dall'antico canto napoletano, riportato con notevoli
doti di ingenuo understatement dall'anziana ma brillantissima Concetta Barra,
agli oscuri semantismi dei sonetti dei pastori di Orgosolo; dalla dolcezza
agreste del teatro contadino di « Quelli di Nocera » al calor rosso delle canzoni
di lotta di Paolo Pietrangeli, il capostipite dei cantautori arrabbiati, degli
aedi politici, alle caustiche tiritere di Ivan Della Mea.
Insomma, salti di
secoli da mettere in crisi i poco ferrati in storia, volo radente con « tappeto
volante » su contrade e regioni italiche, tanto per svergognare i soliti
incerti in geografia (« Nocera Inferiore o Nocera Umbra? ») almeno fino alle
prime battute vocali, in un'orgia godereccia o maldicente, greve o stizzosa,
pungente o cafonesca, di stornelli, villanelle, rimari, sonetti, madrigali,
passioni, tarantelle, storie dell'aia, serenate, melismi onomatopeici, nenie
infantili, ninne nanne di gustosa incongruenza, nelle parlate e nelle lingue
più diverse.
I soggetti sono sempre gli stessi, gli
eterni contrasti tra mariti « che faticano tutto il dì » e mogli procaci sempre
pronte a scappar col primo venuto, tra contadini ingenui e preti scaltri, padroni
e mezzadri, lavandaie deluse e contesse sospirose, l'emigrante e l'amata che
resta. Uno spaccato antropologico brulicante di vita, un microcosmo con un
proprio ferreo codice morale puritano e fondato sull'onore (che è in realtà la
vox populi, quello che pensa o
riferisce il vicolo linguacciuto, il borgo), una scena di storia minore, per
nulla magniloquente, anche quando riporta l'eco di grandi avvenimenti storici
(il « contrasto » toscano - una sorta di educato alterco cantato a due voci -
tra la popolana e l'aristocratica sulla guerra di Tripoli, la rivoluzione e la
restaurazione napoletana del 1815), cui fa da deciso « basso continuo » un filo
di soffusa malinconia, la stessa tristezza fatalistica e rassegnata del popolo
che si ritrova curiosamente nella grande tradizione letteraria e musicale del
blues nero-americano, nel flamenco spagnolo, nel fado portoghese e in molte
altre espressioni folkloriche europee.
Il critico e il pubblico, perciò, hanno
dovuto scegliere tra i tanti piatti saporiti e ben speziati di questa « grande
bouffe » folklorica italiana, piluccando qua e là. Ha sorpreso quanti ancora
non vi si erano accostati la Sicilia amara di Rosa Balistreri, una cantante
aspra e nient'affatto forbita, le cui storie di desolante contenuto intimistico
o di aperta connotazione sociale conservano l'odore pungente di inevitabili
agrumeti, di solfare e solfatare abbacinanti come saline al sole.
Il canto autoctono,
naif e corposo ancora per poco, prima che lo corrompano discografici e
Canzonissime, aveva i suoi autori interpreti nel coro, visibilmente autentico,
dei pastori di Orgosolo, attivo già da vent'anni e scoperto dal musicologo e
ricercatore Diego Carpitella. Un quartetto vocale articolato magnificamente,
quello dei cantori-pastori sardi, tra tenore, boghe, mesa-boghe, contra-bassu
(voce, mezza-voce ecc.) con degli arditissimi controcanti in falsetto, curiose
e originalissime libertà onomatopeiche, trilli e accenti tipicamente
strumentali, che hanno incantato il pubblico nonostante le asperità linguistiche.
Ed erano sonetti d'osteria tramandati di padre in figlio, molti però
nuovissimi, nati per le più diverse circostanze, che si cantano - gomiti sul
tavolo - davanti ad un bicchiere di vino.
Il frasario ingenuo, le tarde e involontarie
reminiscenze medioevali, il sapore campagnolo e gentile di storie esili esili,
quasi inconsistenti (com'è sempre stata la vita nelle campagne dell'Italia centrale,
dolce e civile, affatto priva di fosche tinte e di drammi) sono la cifra
stilistica del Teatro contadino di Quelli di Nocera umbra. Il gruppo,
costituito per lo più da anziani di paese, è apparso amabilmente genuino nelle
sue cantilene a voce alternata, tutti in cerchio a turno, di « Ecco maggio » o
della « Passione », canti allegri di primavera e storie di vangelo popolare
gustosamente romanzate condotti sul ritmo avvincente del saltarello. E'
l'antica Italia contadina del Centro, bonacciona e un po' maldicente, libertina
a parole ma austera nei fatti, l'universo antropologico della garbata musica
di Quelli di Nocera.
Più maliziosa la Toscana contadina della
brava cantante Caterina Bueno, attorniata questa volta da un trio di giovani
strumentisti che utilizzava in modo sufficientemente credibile gli strumenti
tipici delle feste contadine: l'organetto, il violino popolaresco, retaggio
cólto della vicina città, il flauto dritto e la chitarra. Canti tristi della Maremma,
zona di malaria e pellagra, di legnaioli e mezzadri, di contadini che non
vogliono partire per la guerra (del 1918), e il tradizionale repertorio della
« leggera », come si chiama in Toscana la gente un po' fannullona e perditempo,
storie di donne (« La Mea » per esempio), stornelli caustici del Mugello,
ninne-nanne. Il tutto in una dizione attentamente corretta e studiata, con un
tratto genuino ma raffinato, già in un certo senso cosmopolita malgrado la
provincialità della cultura. Si sente che la Toscana è sempre stata il cuore
vitale dell'Italia.
Scendendo nuovamente al Sud, ecco la Napoli
antica - ma eterna nei suoi motivi ispiratori - di Toni Cosenza, ricercatore e
interprete di notevole rigore filologico, non diversamente dal De Simone e dalla
sua Nuova Compagnia di canto popolare, ma più di questi portato alla sottile
arte dell' understatement, dell'attenuazione dei toni e dei colori. Dote che
non guasta, specie nel folklore musicale napoletano, per troppi anni offertoci
in interpretazioni enfatiche, tenute - figurativamente s'intende - almeno due
ottave sopra.
La contemporanea esibizione della Nuova Compagnia di canto
popolare alla Filarmonica, proprio negli stessi giorni del Festival del Folkstudio,
riproponeva icasticamente la vexata
quaestio dei modi interpretativi del canto partenopeo. Tanto le musiche
della NCCP, come ormai viene chiamata, erano imbevute di farsa stravolta, di
pantomima pungente ma neanche tanto ironica, di ricchissimi ed elaboratissimi
elementi teatrali, così da interessare professionalmente più il critico drammatico
che quello musicale - come ci ha confermato un redattore del più importante
mensile di spettacoli - quanto al contrario il garbo recitativo e vocale di
Cosenza si svolge sotto l'insegna d'una calcolata deminutio interpretativa, tesa a mettere in risalto le sedimentazioni
dei materiali musicali, la fedeltà melodico-ritmica alla tradizione realmente
praticata nelle sagre di Giugliano o di Pozzuoli; la linea vitale del canto
del popolo, cioè, al di sotto (ma non è certo un minus) di quella intellettualizzata che scorre parallela negli ambienti
più raffinati del folk revival, quelli dei colti restauratori.
Anche il Lazio, regione ricca ma non ben rappresentata
in questa rassegna, ha avuto il suo concerto con il Canzoniere del Lazio, brillante
e ricco di umori ma non certo al livello degli apporti folklorici toscani,
sardi, umbri o siciliani. Ma non credo che sia colpa dell'ordinatore del
Folkstudio: vorrei essere smentito, ma ho l'impressione che manchino oggi nel
Lazio gruppi di ricerca vocale e strumentale di valore analogo a quello di
altri gruppi regionali. Che sia uno dei tanti effetti della grande « calamità »
culturale della metropoli romana e del suo alienante modernismo consumistico?
Un settore che riserva più d'una sorpresa, in
fondo non troppo praticato, è quello degli antichi e meno antichi canti
toscani anarchici e socialisti. Specialista del settore è la cara e dolce Dodi
Moscati (lei così amabile e i suoi canti, invece, così pungenti), che è sempre
stata attratta dai contenuti di certi sfoghi contadini, tramandati da decenni
in Toscana, di carattere virulentemente antimonarchico, anticlericale o
socialista, del socialismo romantico della fine Ottocento o di quello più
realistico del primo Novecento.
Naturalmente papi e cardinali, generali e
principi di sangue reale non se la vedono molto allegramente in queste cantilene
all'acido solforico, ma l'aria soffusa della stornellata, l'atmosfera della
parentesi campestre o del dopo-lavoro dei minatori (alle dure cave di Gavorrano
o di Tirli, sopra Grosseto) affidano sorprendentemente un messaggio
intimistico alla recriminazione politica e sociale, tanto che il risultato
complessivo appare oltreché storicamente attendibile anche imprevedibilmente
garbato.
Non resta a questo punto che completare la
lunga locandina del Folkstudio con i nomi di Otello Profazio, che ha attinto al
suo ben noto repertorio di storie del Sud, del Canzoniere Veneto, attraverso il
suo membro D'Amico, di Giovanna Marini che ha presentato le sue ballate, dei
già citati Paolo Pietrangeli e Ivan Della Mea, e infine di Francesco De
Gregori. Nel complesso una rassegna molto ben riuscita.
IMMAGINE. Il gruppo Nuova Compagnia di Canto Popolare di Roberto de Simone.
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