CARNE DI CANE, ieri e oggi: «L’arrosto di San Bernardo? Squisito e afrodisiaco».
ARROSTO DI CANE
IL SAN BERNARDO? «SQUISITO E AFRODISIACO»
Una scena comune nelle piccole trattorie fuori mano, specialmente nel sud, a Canton, lontano da quei ficcanaso dei turisti occidentali. Per i cinesi maschi la carne di cane (kou) è considerata da millenni un cibo prelibato e dalle molte salutari proprietà. La più pregiata è quella del cane San Bernardo, ritenuta dagli “esperti” afrodisiaca.
Rari sui banchi dei normali macellai di città e nei colorati e rumorosi mercati all’aperto, i cagnolini lattanti spellati e pronti da cuocere, interi o squartati con cura per mostrare le ricercatissime interiora e invogliare così i clienti, si possono trovare ormai solo sui tavoli di cucina delle trattorie popolari più nascoste, oppure sui banchi delle feste popolari, come a Yulin nella regione autonoma di Guan-xi (Cina), dove si stima che ogni anno in occasione delle feste popolari per il solstizio d'estate (21 giugno) siano macellati, cotti e mangiati migliaia di cani Solo nel 2013 sono stati circa 10 mila. E ci sono cani cinesi, spesso rubati ai loro padroni, e cani importati dall'estero, a più caro prezzo. Sui banchi s’indovinano le carni bianche e aristocratiche dei giovani cani capitalisti degli allevamenti australiani o americani, ben più tenere di quelle dei randagi proletari delle campagne o delle viuzze maleodoranti delle periferie urbane della Cina.
Oggi, anziché essergli grati, gli uomini se lo pappano in umido, oppure arrosto o in brodo. Un modo imprevisto, per il “migliore amico dell’uomo”, di farsi apprezzare e di rendersi ancora “utile”.
Nascosto alle autorità del commercio mondiale sotto il capitolo “importazione d’animali da pelliccia”, o “da allevamento”, l’uso alimentare dei cani da parte dei cinesi ha sollevato l’indignazione degli anglosassoni. Che però si guardano bene dal rifiutarsi di esportare i cani. Gli affari sono affari. Si può calcolare che almeno centomila cani l’anno possano essere uccisi per la loro pelle e poi utilizzati in cucina come golosità per ricchi cittadini e provinciali tradizionalisti. E poi, per paradosso, proprio con le pellicce di quei cani i cinesi fabbricano i baveri di pelo per i loro economici e caldi giacconi o eskimo venduti in Occidente.
Ma di fronte agli occidentali i cinesi si vergognano di quest’uso gastronomico. Negano che il consumo di carne di cane sia elevato e sostengono che è un residuo del passato, ormai limitato a rare occasioni e a ristrette aree. Anche la popolazione, soprattutto quella femminile, sostiene che “in Cina non si mangia carne di cane”. Lo ripete, tra gli altri, la gentile signora Zhu Sheng Hua (in Italia “Anna Chang”), direttrice del raffinato ristorante “Ruyi” di via Valadier, a Roma. Per dimostrare d’essere credibile mi elenca altre pietanze d’uso tradizionale in Cina considerate “proibite” da noi occidentali, come lo Jiao yin ser, che è uno stufato di serpente con sesamo e salsa di soia, e il Qin nie jia yie, di vera carne di tartaruga. Anche Wilma Costantini, esperta di cultura cinese che ha risieduto a lungo in Cina, esclude di aver mai notato esposte nei mercati le carni di cane. «Anche tra i cinesi, specialmente dopo le proteste occidentali, si sta facendo largo un certo ritegno nell’ammettere questa pratica alimentare. Forse in coincidenza con la timida riscoperta in Cina del cane come animale da guardia e da compagnia, dopo che era stato eliminato dalle città in seguito alla Rivoluzione culturale dei decenni scorsi». Le donne negano, dunque. Per forza, la carne “afrodisiaca” di cane è richiesta soprattutto dagli uomini.
Ma sottobanco, per ospiti di riguardo, accade che perfino in Occidente, per esempio in Italia, qualche ristorante cinese cucini carne di cane, come ha denunciato un articolo di Gianni Santucci sul Corriere della Sera.
L’Europa, poi, ha pochi titoli per scandalizzarsi, sia dal punto di vista etico, che da quello protezionistico o del gusto. In molti paesi (vedi riquadro), ancora in età classica e anche in seguito, il consumo di carne di cane e perfino di latte di cagna era normale. In Italia, fino al ‘600 e oltre si è mangiata carne d’orso, e ogni specie di cacciagione, compresi uccelli e mammiferi selvatici rari o familiari (come rondini, gru e cicogne). In Italia, Francia e Spagna si mangiano tradizionalmente carni di cavallo, di coniglio, di rana e di riccio. Eppure il primo era ritenuto dai Romani, ed oggi dagli anglosassoni, animale nobile perché legato ai cavalieri, alla guerra e alle virtù militari. Oggi è tanto amato e familiare da essere equiparato ad un animale domestico, come il coniglio. Perciò l’uso alimentare di entrambi gli animali è assolutamente tabù in Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Ma non nei paesi latini.
Il rifiuto culturale in alcuni soggetti diventa raccapriccio quando le piccole dimensioni rendono riconoscibile nel piatto la forma originaria. In questo ben noto processo psicologico – lo stesso che permette ai non vegetariani di gustare senza rimorsi un’informe e anodina bistecca – gli europei e gli occidentali in genere mostrano strane contraddizioni. I gourmet francesi e italiani, per esempio, considerano prelibato il formaggio stramaturo brulicante di vermi, tanto da avervi abbinato dei vini particolari. Le rane e le chiocciole erano e sono accettate come ghiottonerie, allo stesso modo dei pesci. Chissà perché, le anguille e i “capitoni” sono “squisiti”, mentre i serpenti e le lucertole sono “disgustosi” e “raccapriccianti”. Eppure, nessuno considera imbarazzante, tutt’altro, mangiare ben più mostruose delizie animalesche: granchi, gamberi, aragoste e crostacei d’ogni specie, polpi e calamari, ricci di mare, ostriche. Non si vede, dunque con quale coerenza i finti non-violenti e gli schizzinosi di casa nostra mostrino orrore per i cani che finiscono sui piatti cinesi e disgusto per i serpenti marinati e le salse di formiche rosse (Asia), le larve di mosca, i coleotteri, le cavallette e i topini di campagna arrosto (Africa).
Ipocrisia? Ma no, solo antropologia, cioè abitudine culturale. Il mondo dei tabù alimentari, insomma, a cominciare dalle fave che ripugnavano a Pitagora e ai suoi discepoli, nonostante che fossero vegetariani (anzi, proprio per questo: perché credevano che in quei legumi si celassero le anime dei morti), è così variegato e irrazionale da avvalorare ancora una volta il gustoso, vecchio paradosso degli antropologi, che – lontano dai colleghi, in maniche di camicia e con un boccale di birra scura in mano sono disposti a sostenere che “tutto è tradizione” e che, in parole povere, “non esiste il cibo tipico dell’uomo”.
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In Grecia, negli scavi del 1985 a est del teatro di Corinto, in una costruzione a più locali, alcuni evidentemente destinati a macelleria, altri a cucina, di quello che doveva essere un complesso pubblico, sono state trovati ben 145 kg di ossa di animali usualmente macellati (manzi, capre, suini, uccelli, pesci ecc.), ma anche ossa di cani giovani (probabilmente 9 individui) di età dai 6-7 ai 13-16 mesi. La maggior parte delle ossa canine, per i segni e le rotture caratteristiche dovevano far parte di carni evidentemente macellate, quindi destinate all’alimentazione (David S. Reese, A bone assemblage at Corinth of the second century after Christ. American School of Classic Studies in Athens).
Sulla tavola arcaica dei Romani, dove il manzo non compare per un altro tabù, quello dei “buoi, animali da lavoro”, sanzionato dalle Leggi delle XII tavole, la carne di cagnolino (“catulina caro”), tenera e non tigliosa come quella dei buoi, era presente solo occasionalmente, e per lo più per motivi rituali e religiosi. Secoli dopo, fino all’epoca imperiale (I secolo d.C.), quando ormai erano diffusi gli allevamenti di bovini, quest’antico uso alimentare ancora sopravviveva come rito codificato: ogni anno si riunivano per mangiare – come gli antenati – carne di cane in un pubblico banchetto i membri della comunità religiosa dedicata agli dèi Mani, protettori della casa e delle tradizioni ancestrali.
Numerosi, poi, i cani sacrificati agli dei, come quelli tipici della festa dei Robigalia, di pelo rosso per analogia col colore della ruggine delle spighe di grano, cereale protetto dalla dea arcaica Robigo. Ebbene, in tutti i casi, dopo il sacrificio, il sacerdote e i suoi inservienti mangiavano al posto del dio le carni cotte del cane ucciso. Insomma, i preti si prendevano l’arrosto, al dio andava solo il fumo e semmai il profumo (per fumum).
IMMAGINI. Cani arrosto in vendita oggi nelle bancarelle all’aperto dei mercati di Cina e Corea, dove sono celebrate addirittura delle “Feste del cane”, purtroppo inteso come “carne di cane”. Ma anche noi Europei lo abbiamo fatto più di 2000 anni fa, e anche più di recente in tempi di carestia e di guerra.