30 settembre 2007

BIOLOGICO e “Panorama”: quel mio articolo “troppo duro” per la pubblicità.

La mia inchiesta nella prima versione, non accettata.

LA SCIENZA DISTRUGGE UN MITO: IL CIBO DEL PARADISO TERRESTRE
MA “BIO” È LOGICO?
di NICO VALERIO, giugno 2001
L’alimento “biologico” non esiste per la scienza. Secondo due recenti ricerche, in Italia e negli Stati Uniti, i vegetali “bio” venduti a caro prezzo (anche il 300 per cento) nei negozi specializzati sono del tutto simili per proprietà nutrizionali e organolettiche a quelli comuni dei supermercati. Secondo altri studi, anche la presunta superiorità protettiva e tossicologica di frutta, verdura, legumi e cereali “bio” sarebbe solo una diffusa leggenda.
      Il primo rapporto 2000 del Progetto finalizzato “Determinanti di qualità dei prodotti dell’agricoltura biologica” coordinato dal prof. Gianbattista Quaglia, dell’Inran, Istituto di ricerca sugli alimenti, prova che il contenuto di frutta (pesche, pere, susine, mele) e cereali (frumento duro e tenero) coltivati senza antiparassitari e con le più progredite tecniche biologiche, è del tutto simile a quello degli alimenti convenzionali. A conclusioni analoghe è giunto il Department of Crop and Soil Sciences della Washington State University in uno studio sulle mele biologiche, a cura di John P. Reganold (Nature del 19 aprile 2001).
      Le pesche bio hanno mostrato, è vero, più beta-carotene di quelle comuni (93 contro 49 microgrammi), ma le susine bio ne hanno di meno, solo 68 anziché 107. La vitamina C era quasi pari nei due tipi di pesche, più alta nelle pere bio, ma più bassa nelle susine bio. «Dati contrastanti o non significativi», è stato in sintesi il commento di Emilia Carnovale, responsabile del sotto-progetto nutrizionale. Le colture erano state curate dall’Istituto sperimentale di frutticoltura (Roma), dal Centro per l’incremento agricolo della Lombardia (Pavia), e dall’Università della Tuscia (Viterbo).
      “Bio” è dolce. Una piccola sorpresa per i ricercatori italiani e americani: nei frutti bio c’è qualche traccia in più di zucchero (fruttosio e sorbitolo). Nelle pesche italiane 5,9 invece di 5,2 grammi. Secondo la Carnovale, ciò è dovuto in realtà «al tipo di fertilizzazione del terreno e al grado di maturazione». Sono state trovate anche meno fibre. I chicchi di cereali erano più piccoli (“cariossidi striminzite”) e con meno amido, il che ha falsato i dati delle proteine e dei sali (Rita Acquistucci e Marina Carcea). Per il resto, i vegetali biologici sono nutrienti e gustosi come gli altri. Però più piccoli e con qualche traccia in più di sali.
      Più insetticidi. Ma sono davvero “privi di pesticidi”? Certo, mancano dieldrin, parathion e gli altri famigerati insetticidi “pesanti” del passato, molti dei quali cancerogeni. Ma questi mancano, da anni, anche nei cibi convenzionali ed economici dei supermercati. Anzi, è inquietante che in assenza della chimica dell’uomo, le piante sintetizzano più pesticidi naturali, alcuni dei quali – è provato – più persistenti, antinutritivi o cancerogeni di quelli artificiali. Una spia? L’aumento dei fenoli, come acido caffeico, clorogenico e catechine antiossidanti. Le susine bio ne avevano 70 anziché 42 milligrammi. Nel “biologico”, quindi, anziché diminuire, aumentano i composti tossici.
      Se una ditta inventasse il basilico oggi, con le nuove leggi restrittive e i nuovi protocolli industriali, troverebbe alla porta i carabinieri del Nas, con tanto di mitra spianati. In laboratorio, infatti, un solo grammo in peso secco di basilico, sia pure “biologico”, con i suoi 3,8 milligrammi di estragolo è 25 volte più cancerogeno del benzene, secondo un sensazionale studio di Ames, Magaw e Swirsky Gold su Science. Carcinogenicità elevata hanno mostrato decine di altre molecole naturali presenti in insalate, frutti, legumi, tuberi e cereali, tra cui idrossigenistina e kempferolo. Le patate semiselvatiche (oggi diremmo “biologiche”) in passato avevano un alto tenore di solanina, poi ridotta dal trattamento con pesticidi “umani”. Lo stesso per il pomodoro. Ancora nel primo ‘900 una varietà rustica di fagioli Lima o “di Spagna” ricca di acido cianidrico – un altro pesticida naturale – provocò in Europa un’epidemia di intossicazioni e numerosi morti.
      Altro che “cibi elettivi” della specie Uomo. «Le piante operano una selezione delle specie animali, uomo compreso», commenta il prof.Giuseppe Della Porta dell’Istituto europeo di oncologia di Milano. Per il biologo Walter Mertz, già direttore dei laboratori di Nutrizione umana del Dipartimento di agricoltura degli Stati Uniti a Beltsville (Maryland), ogni vegetale considerato “cibo” dall’uomo contiene migliaia di sostanze chimiche naturali. Sono saponine, agglutinine, inibitori delle proteasi, polifenoli, fitormoni, antibiotici, fibre, fitati, amine, indoli, tiocianati, glucosidi, alcaloidi, micotossine ecc. Tutti pesticidi veri e propri, contro funghi, insetti, bruchi e roditori. Ma anche contro l’uomo. La scienza distrugge, così, il mito del Paradiso terrestre.
      La natura non è “buona”. Ogni giorno un uomo medio, e ancor più un vegetariano, assume col cibo diecimila parti di pesticidi naturali contro una sola di pesticidi artificiali, fino a un totale di 1,5 grammi. Lo ha calcolato il celebre biochimico Bruce Ames, guru della ricerca e inventore del test della salmonella per la mutagenesi. Tutte sostanze innocue, perché ormai vi siamo “abituati”, come ritengono l’uomo della strada e anche qualche medico? Macché. I pesticidi biologici sono mutageni o cancerogeni nel 45 per cento dei casi. E non si degradano subito come quelli artificiali, ma sono terribilmente persistenti. Per nostra fortuna, però, nelle piante ci sono anche molti composti antiossidanti e anti-cancro, che spesso prevalgono, come nella dieta mediterranea tradizionale. Se no, il genere umano sarebbe scomparso da tempo.
      Scienziati scettici. Perciò la comunità scientifica è sempre stata fortemente dubbiosa sul “biologico”. Già aveva insospettito che i famosi epidemiologi Richard Doll e Robert Peto attribuissero ai cibi inquinati solo l’1-3 per cento dei tumori, e invece ben il 30-50 per cento alle diete errate. Negli Stati Uniti indizi sull’inconsistenza scientifica del “biologico” esistono fin dal 1990 (Omnis Committee). Nel 1995, dall’analisi di 3500 studi scientifici è emerso che tra le centinaia di alimenti rivelatisi preventivi o curativi in oltre 40 malattie, tumori compresi, nessuno era biologico, ma quasi tutti erano integrali, cioè consumati con la buccia (Manuale di terapie con gli alimenti, Oscar Mondadori, ed. 2000, pag.760). Anche per l’oncologo Umberto Veronesi, vegetariano, quella del “biologico” è una fisima senza fondamento, mentre porzioni abbondanti di verdure, frutta, legumi e cereali integrali costituiscono un reale prevenzione dai tumori.
      Per un nanogrammo in meno. E allora, se perfino «i cibi protettivi e anticancro non sono altro che i normali alimenti “inquinati” del supermercato», come ha osservato causticamente il prof. Silvio Garattini, farmacologo e direttore scientifico dell’Istituto Mario Negri di Milano, che cosa potrebbero offrire di più e di meglio i cosiddetti alimenti “biologici”? Vale la pena acquistare un vegetale a caro prezzo e talvolta non di prima qualità, con la speranza tutt’al più di un nanogrammo di pesticidi in meno su diecimila? Insomma, “bio” è logico?
      Ecco perché già nel 1991 le autorità di Bruxelles nel regolamento 2092 sul commercio del cibo biologico hanno stabilito che “nell’etichettatura o nella pubblicità non possono essere con-tenute affermazioni che suggeriscano all’acquirente che l’indicazione di prodotto biologico costituisca una garanzia di qualità organolettica, nutritiva o sanitaria superiore”.
      Rischio limitato. Ma come è iniziata questa rivoluzione copernicana? Da qualche anno la chimica degli antiparassitari è cambiata, grazie alle nuove leggi e alla furbizia degli industriali. Al contrario di alcuni pesticidi naturali, nessuno dei nuovi composti si è rilevato in laboratorio della classe 1 o 2, cioè sicuramente cancerogeno per l’uomo. «Il loro rischio è molto limitato, perché sono più mirati ed efficaci a dosi minime. Alcuni sono stati creati copiando le molecole naturali», dice Della Porta, che è membro della Commissione di controllo della Sanità sui fitofarmaci. «Scienza e leggi hanno permesso minore tossicità, minore persistenza nel tempo, minori residui. Il rischio pesticidi oggi è inferiore su scala logaritmica, per esempio, ai rischi da sigaretta o da cattiva conservazione del cibo. Sempreché, s’intende, dosi e metodi corretti siano rispettati», conclude Della Porta. Un rischio analogo a quello dei pesticidi naturali. Talvolta inferiore. Il rotenone, pesticida naturale estratto da una radice, così come l’estratto di tabacco, usati in bioagricoltura, sono molto più tossici di certi fitofarmaci dell’ultima generazione. Eppure, grazie a un regolamento dell’allora ministro Pecoraro Scanio (“Norme di semplificazione”), oggi sono esenti da autorizzazioni.
      Vantaggi solo per gli agricoltori. Smentito a tavola, ad eccezione di carni, uova e latticini (gli animali non sintetizzano pesticidi), spiazzato dai nuovi fitofarmaci poco tossici, il biologico si prende, però, una piccola rivincita nella pratica agricola. Riduce il rischio di overdose per gli agricoltori durante l’irrorazione. Giova anche alla salute degli animali e alla qualità del terreno, almeno per qualche settimana. Infatti, l’esperimento sulle mele biologiche dello Stato di Washington riferito da Nature ha accertato un impatto ambientale minore di 6,2 volte rispetto all’agricoltura convenzionale. E la bioagricoltura si è dimostrata un affare, in termini di reddito. Nello studio Usa, pur con raccolti inferiori, sono bastati i prezzi di mercato più alti e i costi più bassi ad assicurare agli imprenditori margini di guadagno medio più elevati. Insomma, se il “bio” guarisce da qualche malattia, questa è la povertà. NICO VALERIO
Questo era l'articolo originale, già da me ristretto all'osso, a scapito addirittura della buona sintassi, per rientrare nelle battute limitate concesse. Ma non bastò: togli qua e togli là, ecco come il medesimo articolo, dopo infiniti tira e molla, discussioni e successive restrizioni della Redazione (capo-servizio Scienza era Daniela Mattalia), fu infine pubblicato, e molto di malavoglia, dal settimanale "Panorama". Perché non totalmente rifiutato? Perché per anni quelli di Panorama mi avevano intervistato e portato in palmo di mano come esperto di alimentazione sana e ora non potevano del tutto tirarsi indietro senza screditarsi: ero forse all'improvviso diventato "inesperto" o di parte o contrario al mangiar naturale? Insomma, poverini, erano molto in imbarazzo. E ricorsero ai soliti trucchi delle Redazioni quando vogliono sminuire un pezzo, pur pubblicandolo: diminuzione drastica delle righe, titolo caricaturale per quanto è esagerato, ecc. Mi accorsi solo leggendolo dopo la pubblicazione che il maggior prezzo dei prodotti biologici in negozio ("anche il 300 per cento") era diventato miracolosamente (il 25 per cento)! L'inchiesta, nonostante che fosse scientifica, cioè sulla base di studi precisi (anzi, forse proprio per questo), era giudicata inopportuna e controproducente dalla Redazione, come mi disse la Mattalia, del tutto incredula di quelle che a lei sembravano novità astruse. Ricordo che cadde dalle nuvole quando le dissi che la maggior parte dei "veleni" naturali nei cibi altro non sono che pesticidi naturali con cui la pianta si difende. Mai sentito dire. Ma quello di cui avevano paura era di scontentare gli inserzionisti pubblicitari. E in quegli anni ruggenti i produttori italiani del biologico, favoriti da numerosi provvedimenti di favore e dal fatto che gli Enti di controllo - collegati agli stessi produttori - erano di manica larga (come poi avrebbero appurato parecchie inchieste della Magistratura), spendevano molto in pubblicità sui giornali. Così l'Italia si apprestrava a diventare, da ultima che era, la prima in Europa nella produzione del biologico. Possibile, conoscendo la furbizia italica? Fatto sta che migliaia di campi dopo pochissimi anni di convertivano al nuovo e molto più redditizio metodi agricolo. Fu il boom. Hmm..."gatta ci cova", mi dissi. Perché per le analiisi chimiche e gli studi scientifici comparati di agronomia non risultava nulla o quasi, tranne milligrammi di polifenoli in più (di cui non c'è carenza: stanno in tutti i vegetali) e talvolta di zuccheri. Ma ormai il business, più che la scienza, aveva convinto tutti. A caro, carissimo prezzo. Ad ogni modo, io che per primo avevo inserito il cibo "biologico" nel programma del primo club ecologista in Italia, la mia Lega Naturista, nel 1975 (cioè 10 anni prima dei Verdi), ero il primo a metterne in rilievo anche le ombre, visto che il bio era diventato moda snob e costosa, business senza scrupoli. Ecco come venne pubblicato, pur ridotto e modificato, l'articolo:

Ed ecco l'inchiesta come fu pubblicata nella realtà::

FALSI MITI. Le conclusioni degli scienziati
CIBO BIOLOGICO? E' SOLO UN'ILLUSIONE
Non è vero che gli alimenti coltivati senza pesticidi chimici hanno più vitamine, sono più sani e più nutrienti. Lo afferma un rapporto italiano
di NICO VALERIO, Panorama, 21 giugno 2001
[RIQUADRO REDAZIONALE] «LA SPESA BIO E QUELLA NORMALE. Nelle pesche esaminate c’era più betacarotene rispetto a quelle comuni: 93 microgrammi contro 49. Ma non così per le susine. Nei frutti bio c’era qualche traccia in più di zucchero e meno fibre. In sostanza, il contenuto in vitamine è analogo a quello degli alimenti normali. Le pesche analizzate hanno mostrato più o meno la stessa quantità di vitamina C di quelle biologhiche. Le susine normali avevano più betacarotene: 107 microgrammi rispettoi a 68. E anche più vitamina C. I chicchi di cereali infine erano più grandi di quelli bio».
L’alimento biologico per la scienza non esiste. Secondo due ricerche, in Italia e Stati Uniti, i vegetali bio, più cari degli altri (di circa il 25 per cento)*, sono del tutto simili a quelli comuni come valore nutritivo e gusto. E secondo altri studi, anche la presunta superiorità protettiva di frutta, verdura, legumi e cereali bio sarebbe solo una leggenda.
      Il primo rapporto 2000 del Progetto finalizzato “Determinanti di qualità dei prodotti dell’agricoltura biologica” coordinato da Gianbattista Quaglia, dell’Istituto di ricerca sugli alimenti, non lascia dubbi: il contenuto di frutta (pesche, pere, susine, mele) e cereali (frumento duro e tenero) coltivati senza antiparassitari secondo le tecniche biologiche, è lo stesso di quello degli alimenti convenzionali. A conclusioni analoghe è giunto il Department of crop and soil sciences della Washington State University in un’indagine sulle mele biologiche, pubblicata di recente su Nature.
      Le pesche bio analizzate nello studio italiano avevano, è vero, più beta-carotene di quelle comuni (93 microgrammi contro 49), ma le susine bio ne avevano meno, 68 anziché 107. La vitamina C era quasi pari nei due tipi di pesche, più alta nelle pere bio, ma più bassa nelle susine bio. «Dati contrastanti o non significativi», commenta in sintesi Emilia Carnovale, responsabile nutrizionista. Le colture erano state curate dall’Istituto sperimentale di frutticoltura (Roma), dal Centro per l’incremento agricolo della Lombardia (Pavia), e dall’Università della Tuscia (Viterbo). Una sorpresa: nei frutti biologici c’è qualche traccia in più di zucchero (fruttosio e sorbitolo). Nelle pesche italiane 5,9 grammi invece di 5,2. Secondo Carnovale, ciò è dovuto «al tipo di fertilizzazione del terreno e al grado di maturazione». Inoltre sono state trovate meno fibre e tracce in più di sali. I chicchi di cereali erano più piccoli e con meno amido.
      Negli alimenti biologici mancano insetticidi pesanti del passato, come dieldrin, parathion, non più in uso da anni, e anche – si spera ­­– gli attuali prodotti a bassa tossicità e persistenza. Ma in assenza della chimica umana, le piante sintetizzano più pesticidi naturali, alcuni dei quali, è provato, sono più antinutritivi, tossici e persistenti di quelli artificiali. Una spia è l’aumento dei fenoli, come acido caffeico e clorogenico. Le susine bio ne avevano 70 milligrammi anziché 42. E aumentano anche i composti tossici. Le patate semi-selvatiche (oggi diremmo biologiche) in passato avevano un alto tenore di solanina velenosa, poi ridotta dal trattamento con pesticidi. Ancora nel primo ‘900 una va­rietà rustica di fagioli Lima, ricca di acido cianidrico, pesticida naturale, provocò in Europa intos­sicazioni e morti. Il rotenone, pesticida naturale estratto da una radice, così come l’estratto di tabacco, usati in bioagricoltura, sono più tossici di certi fitofarmaci. E in laboratorio decine di altre molecole naturali presenti in insalate, frutti, legumi, tuberi e cereali.si sono dimostrate cancerogene.
      Secondo il biologo Walter Mertz, ex direttore del laboratorio di nutrizione umana del Dipartimento di agricoltura a Beltsville (Maryland), ogni alimento vegetale contiene circa 10 mila sostanze naturali: saponine, anti-enzimi, polifenoli, fitormoni, antibiotici, amine, glucosidi, e così via. Tutti pesticidi contro funghi, insetti, bruchi e roditori. Ma anche contro gli esseri umani. «Una selezione delle specie animali, uomo compreso. Ecco che cosa fanno le piante», commenta Giuseppe Della Porta dell’Istituto europeo di oncologia di Milano. Ogni giorno un individuo, ancor più se vegetariano, assume col cibo diecimila parti di pesticidi naturali contro una di pesticidi artificiali, fino a 1,5 grammi. Lo ha calcolato, mai smentito, il biochimico Bruce Ames, inventore del test della salmonella per la mutagenesi. E nel 45 per cento dei casi, sostiene, i pesticidi naturali sono mutageni o cancerogeni e, contrariamente a quelli artificiali, non si degradano subito. Per fortuna, però, nelle piante ci sono molti composti antiossidanti e anti-cancro che spesso prevalgono, come nella dieta mediterranea tradizionale. Altrimenti il genere umano sarebbe scomparso da tempo.
      Che il cibo biologico non sia garanzia per la salute, gli scienziati lo pensavano da anni. Gli epidemiologi Richard Doll e Robert Peto, per esempio, attribuiscono ai cibi inquinati solo l’1-3 per cento dei tumori, ma il 30 per cento alle diete errate. Negli Stati Uniti indizi sull’inconsistenza scientifica del biologico esistono fin dal 1990, mentre nel 1995 dall’analisi di 3500 studi è emerso che tra le centinaia di alimenti rivelatisi preventivi di oltre 40 malattie, tumori compresi, nessuno era biologico, ma tutti integrali, cioè consumati con la buccia.
      Vale la pena, quindi, comprare bio? Soprattutto quando, come ha sottolineato il farmacologo Silvio Garattini, «i cibi protettivi e anticancro non sono altro che i normali alimenti “inquinati” del supermercato»? Insomma, bio è logico? Sembra proprio di no, visto che già nel ‘91 le autorità di Bruxelles nel regolamento 2092 sul commercio del cibo biologico stabilirono che «nell’etichettatura o nella pubblicità non possono essere contenute affermazioni che suggeriscano all’acquirente che l’indicazione di prodotto biologico costituisca una garanzia di qualità organolettica, nutritiva o sanitaria superiore».
      Al contrario di alcuni pesticidi naturali, nessuno dei nuovi antiparassitari artificiali è risultato carcinogeno. «Il loro rischio è molto limitato, perché sono più efficaci a basse dosi. Alcuni sono stati creati copiando le molecole naturali», dice Della Porta, che è anche membro della Commissione di controllo della sanità sui fitofarmaci. «Oggi la chimica è cambiata e il rischio pesticidi è molto inferiore al fumo e alla cattiva conservazione del cibo. Sempre che dosi e metodi corretti siano rispettati».
      Smentito a tavola, il vegetale biologico si prende una rivincita nella pratica agricola. Riduce il rischio di overdose da pesticidi per gli agricoltori durante l’irrorazione. E giova alla salute degli animali e alla qualità del terreno. Infatti, l’esperimento sulle mele biologiche dello Stato di Washington pubblicato su Nature ha accertato un impatto ambientale minore di 6,2 volte rispetto all’agricoltura convenzionale. E la bioagricoltura è anche un affare, in termini di reddito. Nello studio americano, pur con raccolti inferiori, sono bastati i prezzi di mercato più alti e i costi più bassi per assicurare agli imprenditori margini di guadagno più elevati.
NICO VALERIO

E QUATTORDICI ANNI DOPO... Dopo questo articolo, sia pure brutalmente ridotto, ci sono stati numerosi studi scientifici di conferma. A cui hanno fatto seguito pochi articoli divulgativi nella stampa o alla tv. La rivista di tutela dei consumatori Altroconsumo, per es., ben 14 anni dopo "scopre" che la vera natura del biologico non è il maggiore contenuto nutrizionale.

* NOTA. Modificato dalla Redazione, senza che l'Autore ne sapesse niente: nell'originale era 300%

AGGIORNATO IL 15 SETTEMBRE 2015

08 settembre 2007

SANTI TENORI. "Scena", simpatia, pressappochismo e tanta prosopopea.

PAVAROTTI? Dicono che fosse l'italiano più famoso all'estero. Sarà. Ma certo non ci piace questa cartolina color seppia, il logoro dagherrotipo dell'italiano bravo solo quando è in cucina o quando canta a squarciagola romanze molto orecchiabili dell'800. Perché a rifare l'antico melodramma o il difficile canto della musica italiana antica, sono dolori, e i cantanti italiani capaci si contano sulle dita d'una mano.
E già, perché è il ritmo, anche nella melodia, il punto di forza della musica vocale. Quel ritmo, quella scansione, quella "durata", che a quanto pare il Divo Luciano ignorava. A detta dei critici più severi e meno demagogici della musica lirica.

A noi, critici jazz, non ci impressiona certo il fatto che Pavarotti non avesse ancora dimestichezza con la lettura, come lamenta Paolo Isotta, e che dovesse mandare tutto a memoria, accordo dopo accordo, abbellimento dopo abbellimento. Ci meraviglia, certo, anche perché nel jazz, da molti decenni ormai, quasi tutti i musicisti sono capaci di leggere all'impronta qualsiasi spartito. Questa, anzi, sarebbe una dote in più. No, ci scandalizza e ci appare incompatibile con l'essenza della musica l'assenza in Big Luciano di senso del ritmo, elemento di base alle origini stesse del fenomeno musicale presso tutti i popoli. Ma vaglielo a dire ai soliti melomani italiani di provincia, diseducati alla musica dal Romaticismo mieloso del cosiddetto e famigerato Bel Canto e dal verdismo (o, peggio, dal puccinismo).
Come liberali, poi, abbiamo da lamentarci dell'assistenzialismo di Stato che ha permesso agli Enti lirici di gravare sulle tasche del cittadino, anche quello appassionato di Vivaldi, Corelli, Boccherini, Marcello, quasi mai eseguiti dagli Enti musicali e mai trasmessi dalla Rai, per non parlare di musica jazz, che pure - a volerli seguire nel loro provincialismo nazionalistico - ha alle sue origini un po' di musica italiana e di musicisti italiani. Fu Corrado Augias a condurre tempo addietro una bella inchiesta su "quanto ci costa" la musica lirica all'italiana, tutta basata sui soldi dello Stato, perché i suoi cultori sono pochi e privilegiatissimi. Una vera "casta" sulle spalle di tutti. E senza questo mercato "drogato" dai finanziamenti pubblici non ci sarebbe neanche stato il fenomeno Pavarotti.
Ed è poi davvero una grande musica? Da critici d'una musica diversa, ma pur sempre occidentale e perciò fondata sui medesimi elementi, ci permettiamo di dubitarne. Non c'è confronto di creatività e arte tra l'esecutore-interprete dell'opera d'arte scritta dal compositore della musica lirica o sinfonica e il "musicista totale" del jazz, che è sempre, almeno in parte, compositore, interprete, esecutore, arrangiatore, solista. Non per caso uno dei più grandi critici e musicologi classici, del Novecento, Giulio Confalonieri, scrisse che la musica jazz - ion quanto genere - rappresenta il punto più alto di creatività artistica del secolo. E certo né gli Strawinski, né gli Hindemith, né gli Schoemberg possono valere, anche sommandosi, ad eguagliarne il peso.
Ma ci offende anche la mitizzazione popolare post mortem, all'italiana: come se bastasse vivere a lungo e morire al momento opportuno, quando i tempi sono mediaticamente maturi, cioè il "personaggio" è diventato anche un'icona da tv e da Novella 2000.
E nessuno si sottrae, tantomeno giornalisti, uomini di spettacolo e colleghi musicisti, all'ipocrisia e al conformismo delle lodi "da inumazione", quasi a voler strappare parassitariamente al cadavere ancora tiepido una parte infinitesima di popolarità, nel disperato tentativo di vivere, e facendo soldi, alle spalle del morto. L'esserci, insomma, vale molto più dell'essere nella società dell'apparire. E' la ben nota "sindrome Paolini", il finto folle, in realtà lucidissimo personaggio, che si infila abusivamente davanti alle telecamere. Un po' come, a livello più razionalizzato, fa sempre Pannella.
Ma facciamo parlare il critico Isotta, che ringraziamo per il coraggio. (Nico Valerio)


L' ADDIO AL GRANDE TENORE
La sua forza e i suoi difetti
Paolo Isotta, Corriere della Sera, 7 settembre 2007
Vorremmo ricordare il tenore emiliano com' era ai suoi esordi, rimuovendo i detriti limacciosi accumulatisi con gli anni. Da tenore "di grazia", emulo di Tito Schipa, il quale è ovviamente irraggiungibile, cantava nel "mezzo carattere" dell' Elisir d' amore e della Sonnambula. Possedeva un timbro delizioso ch' era immagine di giovinezza, fiati lunghi e sani e quella splendida chiarezza di dizione che non l' ha abbandonato mai. Sotto quest' ultimo profilo, anche nei periodi meno felici, Pavarotti restava esempio d' una vecchia scuola italiana gloriosa: quando cantava si capiva ogni parola. Contemporaneamente praticò con lo stesso successo il repertorio "lirico": a esempio, il duca di Mantova del Rigoletto. Lo si volle accostare a Beniamino Gigli e, ripeto, per bellezza di timbro e chiara dizione ne era un erede.
Ho un prezioso ricordo d' un testimone oculare quanto autorevole. Interpretava questo ruolo al Massimo di Palermo sotto la bacchetta del grande e burbero Antonino Votto. Rientrando il Maestro in camerino dopo la recita, borbottava: "Nunn' è ccosa!". Perché un direttore di tal calibro era scontento d' un delizioso tenore? Pavarotti possedeva in radice difetti da definirsi in radice che i pregi della giovinezza dissimulavano ma non potevano cancellare.
Egli era un analfabeta musicale, nel senso che non aveva mai appreso a leggere la notazione musicale: le opere doveva impararle a fatica nota per nota con un tapeur paziente. Questo è ancora il meno.
Egli era a-ritmico per natura, non era possibile inculcargli se non in modo vago la nozione della durata delle note e dei rapporti di durata. L' Opera lirica non è il canto del muezzin, è prodotto di accompagnamento orchestrale e richiede voci che s' accordino fra loro. S' immagini Pavarotti nel Sestetto della Lucia di Lammermoor...
Per avere quest' eccezionale cantante si doveva passar sopra a molte, a troppe cose, e così si ricorreva a direttori d' orchestra abili nel "riacchiappare" il tutto quanto pronti a chiudere tutti e due gli occhi sul rispetto della partitura musicale. Questo difetto è con gli anni aumentato, giacché Pavarotti, il suo vero torto, non aveva e non voleva avere coscienza dei propri limiti. Col crescergli un ego caricaturalmente ipertrofico diventava sempre più insofferente delle critiche, anche solo degli avvertimenti affettuosi, come affrontava zone del repertorio che gli erano precluse dalla natura e dall' arte.
Da qui alle adunate oceaniche nei continenti, cantando egli con amplificazione, alle manifestazioni miste con artisti leggeri, magari più musicali di lui, alle canzoni napoletane detestabilmente eseguite, al suo abbigliamento carnevalesco, ai prodigi di cattivo gusto, è stato tutto un descensus Averni: ogni passo ti tira il successivo. E pensare che aveva cantato col maestro Karajan..
JAZZ. Un brano magistrale, ma anche una testimonianza storica e musicale importante del movimento "be-bop", che segnò una svolta epocale nella musica jazz. La registrazione filmica e sonora fu fatta con mezzi non professionali da uno spettatore: Charlie Parker e Dizzy Gillespie in Hot House (1952)

AGGIORNATO IL 5 GENNAIO 2015