CULTURA. Bei tempi, quando ancora la “festivalomania” si poteva criticare!
Il critico lirico era indisposto (e meno male: avrebbe fatto un casino col Don Giovanni in camicia nera)*. L’esperta di danza era impegnata altrove coi “suoi” Momix (per lei c’erano solo i Momix, tutt’al più i Philobolus: tutti gli altri erano cacca). Il giornalista culturale, che soffriva di antipatite cronica, aveva litigato col direttore artistico, secondo lui un pallone gonfiato che andava bene giusto per gli Americani, e non voleva dargli soddisfazione. Il critico teatrale era stato rimorchiato da una giornalista russa dai capelli rossi che se l’era portato a Venezia pensando di fargli pagare anche il proprio conto Excelsior (lui, noto tirchio che scriveva per i giornali solo allo scopo di non pagare gli alberghi). Altri collaboratori, in vacanza per fatti propri nel colmo dell’estate, erano irraggiungibili (non esistevano ancora i telefonini). E il direttore? Figuriamoci, quello era da mesi in ferie, e guai a scocciarlo per quisquilie e pinzillacchere: lui – era noto – «si muoveva [e a fatica, per via d’una dolorosissima sciatica, NdR] solo per Pirandello, al massimo per Diego Fabbri», aveva ricordato la Segretaria di Redazione, una stupenda “nerd” (diremmo oggi: allora la parola per fortuna non esisteva) occhialuta del “partito Mirandolina”, nel senso che diceva sì a tutti, ma non la dava a nessuno, traendone, però, sempre il massimo profitto. Perciò il capo-redattore, un certo Frassoni o Tassoni, non ricordo, un tipo sempre esagitato, aveva le mani nei capelli. Così toccò a me, critico jazz, che casualmente quella mattina mi ero fatto vedere in Amministrazione, più che in Redazione, a ritirare la mia busta con gli “emolumenti” (nome altisonante usato per compensare il magro stipendio), andare al Festival dei Due Mondi di Spoleto, mentre invece già pregustavo la vacanza ad Alonissos, a quei tempi priva di turisti Italiani e Greci: un paradiso!
[Introduzione che è puro divertissement, sia chiaro, sono costretto a precisare. Anche se… anche se non si discosta poi così tanto dalla realtà delle “spettabili Redazioni” dell’epoca, culturali o no].
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CONSUNTIVI DEL FESTIVAL
LE AVVENTURE
D’UN ANTI-CRITICO
NELL’ESTATE UMBRA
NICO VALERIO, Fiera Letteraria, 27 luglio 1975
SPOLETO, luglio. La porticina dell' Ufficio-stampa era sbarrata. Due ante di robusto noce dell' 800: inutile insistere. Col senso dell'anticipo appreso in corsi accelerati presso la burocrazia romana, magistra juris, il personale aveva lasciato in asso critici sbandati e giornalisti col pallino della « esclusiva » alla Proclemer. A quell'ora – scosse la testa un portiere bonario – il sig. Trapetti e gli altri pasteggiavano in chissà quale taverna tipica. Bianchetto e fagioli con le cotiche; sicuro; per via del freddo e della pioggia fuori stagione.
Il critico scavezzacollo, un po' Franti e un po' Pierino (« mai che si faccia vedere in redazione quando serve», mugugnano i direttori) si penti amaramente di non essersi fatto accreditare per tempo da una delle sue testate e si rigirò tra le mani il misero biglietto che era riuscito a procurarsi al botteghino, dopo lunga coda regolamentare. Destino cinico e baro, il ticket con diritto ad una completa degustazione del Don Pasquale, opera buffa di tale Donizetti da Bergamo («Dozzinetti» per gli avversari), era toccato proprio a lui, nemico giurato del melodramma all'italiana.
«Sentiranno domani, quelli dell'Ufficio-stampa» sibilò il nostro tra i denti, discendendo – quant'è duro calle – le altrui scale in peperino grigio di via Giustolo 10, sede degli uffici del Festival dei Due Mondi.
Il tempo, troppo mutevole per la stagione, si era rimesso al bello. Ora nel «salotto buono» di piazza del Duomo non erano solo i corvi della torre a gracchiare scompostamente. Seduti, anzi allungati sulle sedie del «Tric-trac», il bar alla moda, i festivalieri in jeans e mocassini indiani spettegolavano per la delizia delle croniste mondane. Un cicaleccio insopportabile. Mezza piazza Navona che conta, l'intero caffè Rosati, buona parte dei soci del Filmstudio e del Beat '72, sorseggiano pallidi caffellatte completando la tintarella come sulle terrazze dell'Urbe eterna. Stesse facce, stessi camicioni da campagnola incinta; perfino gli hippies che chiedevano le «cento lire» erano gli stessi visti qualche giorno prima a Campo de' Fiori.
L'ossigenatissimo Albertazzi, regista della pièce tragicomica La signorina Margherita, interpretata felicemente dalla Proclemer, era – chissà perché – molto più conteso dalle signore (e dai ragazzi, emaciati e un po' inquietanti), di Romolo Valli, direttore artistico del Festival, una volta tanto dall'altra parte della barricata. Mentre il critico musicale Fedele D'Amico schivava prudentemente un gruppetto di conoscenti, l'onorevole Pajetta, in berretto grigio (ma i capelli bianchi si vedevano, eccome) entrava al Caio Melisso per il Concerto di mezzogiorno: Telemann e Brahms.
Tutta gente di fuori, allora. Gli addetti ai lavori, ma anche le signore della Roma-bene; quelle che « si occupano di mercato d'arte » come un tempo le ragazze d'incerta virtù si occupavano di cinema; giornalisti di destra (molti) e di sinistra (parecchi), ma anche fainéants dorati che trascinano stancamente i propri mocassini Varese da un aperitivo a un gin-con-ghiaccio nel locale di fronte. I residenti, gli studenti di Spoleto, gli umbri, sono quasi del tutto assenti dal pubblico dei «Due Mondi»: un « terzo mondo » non previsto da Giancarlo Menotti, che pure tanti meriti ha per aver portato «cultura» e divisa straniera in una provincia che viveva solo di economia agricola.
Ma come è possibile che gli spoletini, col Festival in casa, non approfittino di questo balcone aperto sulla cultura contemporanea e continuino ad affollare i cinemini di seconda visione, le tribune delle corse automobilistiche di Magione o delle gare di canoa al lago di Piediluco? « E' possibile – mi risponde la dott.ssa Laura Vasta, che ho conosciuto casualmente in Corso – perché i prezzi sono alti e per seguire degnamente il “Due Mondi” bisognerebbe assistere almeno a due spettacoli quotidiani. E poi, nessuno tra gli organizzatori si è preoccupato di invogliare i cittadini di Spoleto, gli studenti e i lavoratori specialmente, a frequentare il festival, magari con prezzi ridotti... ».
Certo, la cultura costa, tanto più quanto più direttamente è collegata ai canali internazionali. Eppure un paragone (spiacevole, come tutti i confronti, ma inevitabile trattandosi della stessa regione umbra) viene fatto con la rassegna itinerante « Umbria-jazz », giunta quest'anno alla sua terza edizione. Questo festival, che presenta artisti di valore mondiale, con opere di avanguardia accanto ad altre più riposate, e quindi è ben paragonabile per livello artistico al «Due Mondi» (forse superiore, anzi), tocca in sette giorni sei antiche città umbre, si svolge nelle piazze medioevali, su palchi eretti sotto il balcone del Capitano del Popolo o di fronte ad un lago, ed è assolutamente gratuito per gli spettatori. Tutte le spese, che sono rilevanti, vengono assunte dalle amministrazioni comunali, provinciali e regionali come intelligente investimento turistico e culturale a lungo termine. E, quello che più conta, non assistono ai concerti solo gli addetti ai lavori, che specie nel jazz sono pochi, ma tutti: dalle vecchie donne di borgo, che vedono con piacere il ritorno della vecchia tradizione della « banda paesana », ai giovani studenti e lavoratori, alla gente comune.
Perché non realizzare anche a Spoleto quello che a pochi chilometri di distanza è così facile realizzare?
Intanto ritroviamo il nostro critico, che è riuscito a sottrarsi al perverso fascino degli otto rosoni – già, proprio otto – delle facciata del Duomo ed ha trovato posto, in forzata coabitazione, in un palchetto laterale del terzo ordine del «Teatro Nuovo». Come fare per visualizzare correttamente la scena, con messa a fuoco e tutto? Semplice: basta possedere un modesto specchietto da periscopio. Costa pochissimo e permette finalmente la visione d'un interno d'una Napoli di maniera, con tanto di panni stesi al sole accanto al comò. L'avaro e burbero Don Pasquale (Enzo Dara, célibataire malgré lui, è alle prese con l'intrigante e impomatato dottor Malatesta (Angelo Romero) che gli promette le grazie della giovane vedova Norina (Renata Pizzo), spacciandola per sua sorella. Una trama scontatissima che si trascina stancamente, nonostante che l'ambientazione originaria del XVII secolo sia stata trasferita agli anni Trenta, discutibilmente, come ha scritto sulla Fiera il critico Mario Rinaldi.
Lascio al critico il giudizio su quanto abbia pesato in meglio o in peggio, la regia di Giancarlo Menotti. Per il critico un po' nevrotico del succitato palchetto, però, certe situazioni d'un cattivo gusto un poco surreale (la spavalda camicia nera del nipote Ernesto, il tenore Max René Cosotti, nel primo atto, e l'accelerata discesa giù per le scale del palazzo d'uno strano funerale con bara in picchiata) potevano essere evitate. Felice e svelta, piuttosto, la scena del coretto dei servitori, nel secondo atto, quando questi, padroni del campo per l'assenza dei protagonisti, si passano di mano in mano la lettera che rivela il tradimento di Norina, ormai riottosa moglie di Don Pasquale, col giovane Ernesto. Lieta sorpresa l'orchestra americana del festival, diretta da Christopher Keene, spicca sempre in primo piano nelle ouvertures come nel corso dei due atti per brillantezza e toni pastosi, quasi « sinfonici », sopperendo in parte alle modeste invenzioni teatrali e musicali d'un'opera ormai datata e fuori della nostra cultura più viva.*
Evitate per un pelo le tre ore di Napoli: chi resta e chi parte, lo spettacolo di Raffaele Viviani realizzato da Patroni Griffi (ottima prova, però, diranno i colleghi l'indomani), al critico nevrotico non resta che il balletto del coreografo francese Felix Blaska e lo spettacolo di spiritual e danze Your Arm is too Short to Box with God, (« Un braccio troppo corto per poter fare la boxe con Dio »), una pantomima evangelica d'una compagnia di attori-cantanti neri. Saltato per la pioggia e il freddo il balletto di Blaska, l'unica cosetta da vedere è l'opera-spiritual.
Ma, anche qui, grossa delusione. Lo spettacolo è all'aperto, nel cortile esterno dell'ex seminario. Dopo un'ora e mezzo di attesa, battendo i denti letteralmente per il freddo, con maglioni e plaids sulle gambe, il braccio di ferro tra pubblico molto ben disposto che vuole vedere e sentire qualcosa, qualunque cosa, e la compagnia che giustamente si rifiuta di mettersi in calzamaglia e di danzare nelle pozzanghere, si raggiunge un compromesso: niente danza, abiti da passeggio e programma in parte tagliato. Spirituals correnti intonati ma senza un briciolo di genio, con tanto di Cristo crocifisso e il Giuda di prammatica. C'è tutto quello che uno spettatore bianco di media cultura si aspetta da uno spettacolino del genere, perfino il finale Kitsch d'un When the Saints go marchin' in dilettantistico. Applausi, naturalmente, da parte d'un pubblico pago dell'irripetibilità dell'avvenimento che sta vivendo. L'indomani, asciugando l'umidità della notte nella piazzetta beffardamente inondata di sole, se ne vanterà con gli altri, con spreco di aggettivi.
Così, dopo aver visto la bella mostra fotografica Spoleto 1966-1975 di Lionello Fabbri. a palazzo Ancaiani, il critico bisbetico non ne può più e torna di corsa a Roma. Dove la sera stessa, com'è come non è, vedrà le solite facce del Tric-trac e del Caio Melisso ai Tre Scalini e al caffè Navona. Addio, belli di sera, ci vediamo fra un anno.**
N.V.
NOTE
* Di quella messinscena teatrale di Menotti si parlava ancora vent’anni dopo (v. articolo sul Corriere della Sera).
** Be’, però, non era così facile neanche allora criticare un certo modo futile e spettacolare di “fare cultura e turismo coi Festival”. L'articolo non può dire, ovviamente, quel che successe dopo la sua pubblicazione. Era stato scritto per far sorridere con la sua satira di costume, eppure fu preso molto sul serio dalle Alte Sfere del Festival dei Due Mondi. Il Direttore amministrativo dei Due Mondi, se ricordo bene, andò su tutte le furie e scrisse una lettera di fuoco al Direttore della Fiera Letteraria, smentendo – non sapendo che cosa smentire – che… sulla piazzetta stazionassero i “soliti” perditempo già visti a Roma dall’autore, e perfino i questuanti, e addirittura che vi fosse stato cattivo tempo… Un altro po’ avrebbe smentito perfino che a Spoleto si fosse tenuto un Festival. Insomma, tutto molto seriosamente, come del resto si confà a un amministratore. Senso dell’umorismo, zero! Però non riuscì a smentire che l’Ufficio Stampa aveva condannato l’inviato della Fiera a sedere in galleria proprio dietro una colonna, togliendogli la visione di metà del palco e col rischio di torcicollo… E comunque, il nostro Direttore si dovette profondere in scuse e giustificazioni di prammatica. A onor del vero, non un capello fu torto all’anti-critico che il Caso aveva scelto per criticare lo spettacolo sbagliato. “Bei” tempi: oggi non so come sarebbe andata a finire.
IMMAGINE. 1. Il cantante Enzo Dara nel Don Pasquale di Donizetti. Qui è ritratto sulla copertina di un disco con l’incisione dell’opera con l’Orchestra del Regio di Torino, dir. B. Campanella). 2. I famigerati “8 rosoni 8” del Duomo di Spoleto. Nella piazzetta antistante i fannulloni viziati dalla festivalomania, allora agli albori, quindi ancora più naive e sicura di sé, continuavano come se nulla fosse la loro abituale vita di romani o milanesi. La cultura? Un pretesto snob, una scusa, una occasione di lavoro, una fonte di finanziamenti. 3. Il Ristorante-bar Tric-Trac famosissimo ritrovo à la page di Spoleto festivaliera, negli anni dorati e no (foto Il Messaggero).
AGGIORNATO IL 20 FGEBBRAIO 2015
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