DISASTRI. Il terremoto fa riflettere: arte, storia e cultura nostre prime risorse
E’ la nostra unica, vera, emergenza. Quella delle costruzioni storiche cadenti, instabili, non restaurate, tantomeno rafforzate in previsione dei terremoti a cui l’Italia è soggetta, beni privati o pubblici abbandonati a se stessi da secoli, che si sbriciolano col passare degli anni o crollano al minimo terremoto.
Prima ancora di questa crisi finanziaria ed economica, che ci arriva da lontano, il degrado dei beni storici – che sono il nostro unico, vero, patrimonio, anche economico – ci tocca da vicino, perché è una trascuratezza nostra, tutta italiana, frutto d’insensibilità culturale e psicologica, per la quale non possiamo accusare le lobbies di Wall Street o gli gnomi di Zurigo.
E non stiamo parlando dei capolavori assoluti della pittura, della scultura o dell’architettura che quasi sempre monopolizzano l’attenzione e i pochi finanziamenti, ma di quel diffuso, sterminato, tessuto connettivo di testimonianze di Storia costituito dall’inestimabile patrimonio culturale di torri, palazzi, monumenti, mura, castelli, ville, chiese, abbazie, teatri, interi villaggi, centri storici di cittadine e città meravigliose.
Non è questione di Arte o di Grande Arte, non è questo il problema: di capolavori ne abbiamo tanti. Ma si tratta, invece, di salvaguardare un bene diverso e altrettanto prezioso per una Nazione unita da poche generazioni: la testimonianze di una storia comune degli Italiani. E che Storia! Ecco perché queste costruzioni che un terremoto, una inondazione, una frana distrugge non hanno l’eguale al Mondo: rappresentano la nostra identità di popolo. Più di altri simboli. Nessuno le può rubare (come la Gioconda) o imitare (come il gorgonzola o il parmigiano) o comperare in blocco (come potrebbe accadere, in teoria, per la Ferrari).
E dunque, noi Italiani “siamo” quelle case, quegli archi, quelle torri, quelle ville, quelle scalinate, quelle piazze. Non altro. Anzi, se davvero fossimo degni di essere cittadini italiani, lo saremmo perché ci identifichiamo molto più con le tante piccole opere, spesso anonime o collettive, definite “minori” da un’estetica pseudo-romantica, che l’operosità di geniali maestri muratori seppe realizzare in passato, piuttosto che con le magnifiche opere dei Grandi artisti individuali.
Più che il Davide di Donatello , la Cappella Sistina e le centinaia di altre opere, grandiose, sì, ma che rappresentano solo i grandissimi e isolati artisti che le crearono, noi “siamo” storicamente le mura di Ferrara, la piazza del Campo di Siena, il Vittoriano e la scalinata di piazza di Spagna a Roma, la piazza del Mercato di Lucca, la città fortezza di Palmanova, i borghi e i porticcioli delle Cinque Terre, la valle d’Itria e i trulli di Alberobello, e così via di regione in regione.
E dunque noi Italiani, tutti, anche i siciliani e i piemontesi, “siamo”, anzi, “eravamo” perfino la bella torre civica dell’orologio di Finale Emilia o di Novi di Modena, senza troppe pretese di artisticità, smplici e severe come si addice a una torre civica, cioè laica, che nell’immaginario collettivo dei signorotti e delle piccole comunità agricole d’un tempo doveva competere in altezza, imponenza o simbologia del Potere con la chiesa parrocchiale. L’orologio pubblico, poi, era visto come un vero “servizio” per la comunità, in tempi in cui solo pochi nobili, il curato, il medico e il farmacista ne possedevano uno personale (le famose grosse “cipolle” a più involucri).
Ora entrambe le torri dell’orologio sono crollate, e non per la crudeltà della Natura, ma per l’insipienza degli uomini che non le avevano rafforzate abbastanza, con la scusa del costo, sicuri che potesse esistere qualche regione della Penisola esente dal rischio sismico per varie centinaia di anni.
L'ennesimo terremoto – stavolta in una zona a torto considerata “immune”, ai confini della val Padana, tra Parma e Modena – ha ricordato anche ai tanti che non volevano sapere e che usavano nascondere la testa sotto terra, che tutta l'Italia è zona altamente sismica, e dunque spetta a noi, solo a noi, difenderla come già fecero i nostri antenati.
Due torri, simboli di comunità, due tra le migliaia in Italia, cadono, e questa caduta diventa a sua volta il simbolo del nostro dramma culturale e psicologico di Italiani del Duemila, in media più colti scolasticamente dei nostri antenati, ma sottoculturali perché ci illudiano che si possa impunemente vivere di presente, senza ingombranti legami antropologici, senza Storia, insomma senza alcun valore che non sia il denaro, ingrati verso le generazioni dei secoli scorsi, immemori del nostro passato.
Altro che crisi finanziaria, la vera crisi è che lasciamo distruggere le costruzioni in pietra di ieri in cambio del cemento e delle pareti prefabbricate di oggi, materiali non nobili, che come la plastica invecchieranno e si distruggeranno senza diventare mai antichi.
E l’Italia non è il Texas che ha ampie aree disabitate o desertiche. L’Italia, piccola e antropizzata fin dai primordi della sua lunga Storia, è piena di costruzioni e manufatti di grande valore storico o artistico, ma anche – dall’ultima guerra ad oggi – di moltissime case, per lo più brutte, kitsch e abusive, oltretutto non anti-sismiche, spesso disabitate, che dovrebbero semplicemente essere abbattute, come propone da anni l'urbanista Aldo Loris Rossi. L’Italia va rifatta. Basta col cemento speculativo e inutile, visto che non c’è crescita demografica e domanda, e sì, invece, al restauro dei Centri Storici della belle città italiane, oggi pieni di case vuote e cadenti.
Basta con le nuove costruzioni! Riutilizziamo le antiche e bellissime case dei nostri Centri urbani. E’ il momento, proprio in tempi di crisi, di abbattere il brutto e il non anti-sismico, e di restaurare e consolidare tutto ciò che è bello e storicamente valido.
Ma lo capiranno i sindaci dei Comuni e i presidenti di Regione, i parlamentari e i ministri? Per loro, molto spesso, come provano le tipiche biografie di chi si dedica alla professione politica, la conservazione dei beni storici, artistici e culturali, la stessa cultura in sé, quando sono prese in considerazione sono oggetto di alzate di spalle (“Abbiamo troppe opere d’arte e pochi soldi: dobbiamo scegliere”), non capiscono che il primo patrimonio dell’Italia (il Paesaggio e il cibo sono gli altri due) è la Cultura, anche in volgarissimi termini di miliardi di euro ogni anno.
Per politici e amministratori il rilancio dell’economia vuol dire sovvenzionare in modo obliquo questa o quella impresa o lobby amica senza neanche valutare se ciò che produce risponde a requisiti di sicurezza e di mercato, costruire un nuovo stadio di calcio, aprire l’ennesima “super-strada” parallela ad una già esistente, costruire un doppione di linea ferroviaria “ad alta velocità” che il pubblico non richiede, mentre vorrebbe il ripristino delle vecchie linee locali dismesse. Ma vuol dire anche attrezzare un porticciolo, spesso distruggendo la bellezza selvaggia del paesaggio, per barche che non arriveranno, dare concessioni (che per i sindaci vuol dire auto-finanziarsi) per la costruzione di capannoni che resteranno vuoti, o per urbanizzazioni speculative di “unità abitative” destinate a restare senza compratori, ma buone solo per i costruttori (“che si spera ci diano un po’ di soldi e facciano votare per il nostro Partito”). Come meravigliarsi, perciò, se per questi amministratori e politici arrivisti e ignoranti una festa popolare vuol dire talvolta solo la sagra della piadina, del grana o della porchetta?
IMMAGINI. 1. La Torre dell’Orologio di Finale Ligure semidistrutta dal terremoto (che poi la raderà al suolo completamente con una seconda scossa). 2. La Torre dell’Orologio di Novi di Modena colpita dalle prime scosse del terremoto (prima di finire totalmente distrutta da nuove scosse).
JAZZ. Shangai Shuffle in due versioni diversissime registrate a distanza di 10 anni dalla stupenda grande orchestra di Fletcher Henderson, colui che portò alla maturità e alla massima espressione lo stile da big band, rivelando anche un arrangiatore come Redman e solisti come Armstrong e Hawkins. La prima interpretazione, sintetica, ritmica, icastica, con la cornetta penetrante e ritmicamente travolgente di Louis (Louis Armstrong, Elmer Chambers, Howard Scott (tp); Charlie Green (tb); Buster Bailey (cl,as); Don Redman (cl,as,oboe); Coleman Hawkins (cl,ts); Fletcher Henderson (p); Charlie Dixon (bj); Ralph Escudero (tu); Kaiser Marshall (d) New York, 13 ottobre 1924). La seconda interpretazione, del 1934, è armonicamente più profonda, barocca, complessa, tutta giochi di sezioni e intrecci melodici e armonici, a tratti perfino virtuosistici, ma senza i geniali solisti della prima versione. E’ tuttavia molto bella, d’un altro genere di bellezza. Tra i solisti: Buster Bailey al clarinetto e Henry "Red" Allen alla tromba.
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