LA CUCINA DEL VENTENNIO. Tra il Duce “salutista” e i consigli di Petronilla.
.LA CUCINA DEL “VENTENNIO”
LA TAVOLA AI TEMPI
DEL FASCISMO
TRA RIVOLUZIONE E SOGNI BORGHESI, LE SANZIONI E LA GUERRA
Quando il polpettone era “maschio” e la minestra “femmina”, Mussolini si ergeva a Grande Dietologo “naturista”, Petronilla insegnava la “crema senza uova”, e l'ideale femminile era ventre piatto, sì, ma cosce robuste. Poi, a contrastare gli inconfessati sogni borghesi dei gerarchi, arrivano le “Inique sanzioni” dalle nazioni “demo-plutocratiche”, e alcuni surrogati che oggi piacerebbero ai salutisti. E poi la guerra...
di NICO VALERIO (Buono, marzo 1990)
Ci sarebbe stata la rivoluzione sovietica senza adeguate porzioni di kasha di saraceno con i cavoli? E la rivolta degli indios messicani, guidati da Emiliano Zapata, sarebbe stata possibile senza migliaia di tortillas di mais con fagioli?
Interrogativi tormentosi, senza dubbio, che però non sembrano occupare le menti degli storici, anche in questi tempi di determinismo alimentare di sapore neo-positivista. Strano. Non si era detto che i popoli sono quello che mangiano? Non sono stati gli allievi di Georges Oshawa, inventore della macrobiotica, a “spiegare” l'insuccesso degli americani in Vietnam e poi quello dei russi in Afganistan col fatto che sia John che Ivan mangiavano troppo zucchero, grasso e carne (elementi dannatamente Yin secondo la dottrina gastrosofica Zen), mentre montanari e contadini delle regioni invase avevano una dieta "povera", con legumi, cereali e sale (tutti robustamente Yang)?
E allora, se davvero il destino dei popoli si legge nei fondi dei loro piatti, vediamo che cosa mangiavano i nostri nonni e i nostri padri al tempo in cui Lui, atteggiandosi a Grande Dietologo per tutto un “infausto Ventennio”, reggeva le sorti perfino delle cucine d'Italia.
«I miei pasti sono frugali»
Niente tabelle, innanzitutto. La bonomia mediterranea non si lascia tentare dai rigori della Transilvania, come accadrà a Ceausescu quando, per decreto, prescriverà ai rumeni una “dieta scientifica” povera di calorie e vitamine, che li affama e debilita. No, in Italia l'ex giornalista Mussolini conosce bene l'arte di comunicare e sedurre, meglio se attraverso le corporazioni di medici, giornalisti, scienziati, cuochi.
Romagnolo, quindi geneticamente amante di cibo ricco e saporito, il Duce comprende le ragioni dello stomaco altrui, anche se è costretto dal proprio a stare a dieta. Naturalmente, Lui ne fa un proclama: “Ho fatto del mio organismo un motore sorvegliato e controllato che marcia con assoluta regolarità... Le mie regole dietetiche sono fisse, i miei pasti sono frugali...”
Fortuna che nel negozi dell'epoca sì trova tutto o quasi, per chi se lo può permettere, almeno fino alle “Inique sanzioni” del 1935-36. Ma è difficile sostenere, sia pure soltanto a tavola, che «si stava meglio quando si stava peggio». Sulla tavola fascista resistono le abitudini contadine e montanare della provincia, con le pagnotte semintegrali di “farina N.1”, o più scura, nella grande madia di legno d'abete e le fumanti polente di granturco o formentone lasciate rassodare sul tagliere.
In questo, certo, l’Italia “Grande Proletaria” cantata dai vati del fascismo – che è un movimento del Nord, ricordiamolo – è semmai “polentona” non “pastasciuttara”, termine non a caso romanesco. Al Sud, che il regime emargina, c'è l'uso popolare dei maccheroni. Al Nord, tutt'al più, vige quello festivo dei fidelli e delle trenette (Liguria) al posto del riso, o dei bigoli scuri fatti in casa col torchietto di bronzo, il bigolaro (Veneto).
Zuppa liquida e minestrone solido
La vera pietanza del Ventennio è però la minestra, con le sue varianti estreme della zuppa liquida e del minestrone solido. Italianissima (minister, nientemeno, era il cameriere di mensa addetto al servizio delle pietanze brodose) anche perché vuole molte verdure fresche ogni mese dell'anno, la minestra è un po' il concentrato delle soffocanti virtù domestiche piccolo-borghesi su cui si fonda il fascismo: risparmio, sostanza e imitazione. Una buona via di mezzo tra la polenta contadina (sostanza senza forma) e il brodo aristocratico (forma senza sostanza).
Una terza via italica che diventa la pietanza più adatta al target della "rivoluzione" piccolo-borghese del 1922: il popolo di maestre, casalinghe, sottufficiali, ragionieri e pensionati in camicia nera che ascolta la radio e affolla le adunate fasciste.
E la minestra, appunto, come segno distintivo di una classe sociale in ascesa, è il primo esame di ammissione, una portata casalinga e popolare, sì, ma che esige quel tanto di affettazione di "civiltà", abilità e buone maniere in chi la cucina, in chi la serve, e in chi la mangia. Tutti devono usare e bene, se non altro, almeno la scodella e il cucchiaio.
Vorrei ma non posso
Ma la minestra è femmina – anche nella variante energetica e appena più virile del minestrone denso alla toscana – e come tale spesso rifiutata dai ragazzi, su cui fa presa il modello eroico e maschilista del fascismo. Per questo, forse, è un po' sottaciuta dai cultori del mangiare italiano.
Il polpettone, invece, è un cibo blando ma sicuramente maschio e perciò atto a “forgiare muscoli e menti” (più i primi, forse, che le seconde) della tracagnotta gioventù di nuovi Balilla. E anche qui, la gastronomia epica del fascismo nasconde meschine virtù piccolo-borghesi: riutilizzo degli avanzi poveri (il pane), arte dell'imitazione (il tanto ambito arrosto alto-borghese e aristocratico), il carattere ludico della sorpresa (l'uovo sodo e le carote nascosti all'interno).
E' il "vorrei ma non posso" dei Fantozzi dell'epoca, il basso ceto impiegatizio e í funzionari del partito: poca spesa come per i cibi dei poveri, ma buone proteine come i piatti dei ricchi. Il polpettone fascista diventa perciò la pietanza-simbolo dell'assennatezza donnesca, il baluardo familiare e autarchico contro i più sfrenati lussi demo-plutocratici e giudaico-massonici.
Se poi il siluro di carne (o di "simil-carne") evoca subliminali immagini guerresche o sessuali, tanto meglio per la sottocultura fascista dei doppi sensi da caserma: Freud e la psicoanalisi sono sconosciuti.
Il Duce “naturista”
Il cibo - ecco la modernità - per la prima volta è oggetto di propaganda di massa. Settimanali per famiglie e stampa femminile (La donna fascista, L'Illustrazione italiana, Eva, La Domenica del Corriere, Cordelía, Il grillo del focolare ecc.) avranno il loro dafare, dal 1925 al 1943, ad "educare il popolo" ad una dieta parca ma energetica, basata sui cereali (pane, riso, pasta, minestre) e sulle proteine vegetali.
I proclami viriloidi della cucina futurista, con Marinetti in persona che condanna la pastasciutta, e le fissazioni alto-borghesi sulla carne come cibo quotidiano, cadono a poco a poco. La tavola fascista, per l'urgenza della "battaglia del grano" e poi per la "resistenza" alle sanzioni economiche, si femminilizza e riscopre insieme la dieta sana e le verdure, la linea e i legumi, la frugalità come prevenzione e la frutta. Lo stesso Mussolini, da grande istrione, si proclama “naturista”, allarmando non poco i buoni naturisti della Federazione Naturista Italiana, in odore di libertarismo. Del resto la campagna di sensibilizzazione parte dallo stesso Duce, di volta in volta dietologo, storico dell'alimentazione, copywriter e art-director di pubblicità.
La dieta morale e fisica degli italiani
«Italiani amate il pane, cuore della casa, profumo della mensa, gioia dei focolari...», scrive nel gennaio 1928 per le "Giornate del pane". Il pericolo ora è che il nuovo afflusso di ricchezza che premia le classi in ascesa che sostengono il regime venga sperperato in cucina, magari imitando i modelli ricchi della borghesia occidentale (carni, zucchero e dolci, eccesso di grassi, liquori).
E' lo stesso Mussolini a puntare sulla "diversità" delle nostre tradizioni rurali: «Fortunatamente – ammette, con involontaria ironia, nel novembre 1930 – il popolo italiano non è ancora abituato a mangiare molte volte al giorno».
In ogni caso, inutile farsi illusioni di sperperi ed epiche mangiate, perché il Taumaturgo veglia: «Sono io, Benito Mussolini, che ho curato la dieta morale e fisica dell'Italia e ancora oggi sorveglio attentamente che nulla di dannoso al sistema del mio paese possa arrivare al suo stomaco e provocare malattie e disturbi», (intervista al London Daily Express del 1927).
In Europa, e soprattutto in Germania, negli anni Trenta si diffondono le Reformhauser, i centri di alimentazione naturale e di "vita sana". Sùbito il Capo del Governo si dice «profondamente convinto che il nostro modo di mangiare, di vestire, di lavorare e di dormire, tutto il complesso delle nostre abitudini quotidiane, deve essere riformato» (30 gennaio 1932). Perché non rivolgersi ai medici? «Può sembrare incredibile, ma da quando ho invitato i medici italiani a sollecitare il consumo dell'uva, il consumo dell'uva da tavola si è quintuplicato. Se domani i medici dicessero che il riso non è più quell'alimento disprezzabile che molti pensano...» (28 gennaio 1932).
Ed ecco, quindi, La massaia del novembre 1935 esortare al consumo del cereale autoctono. «Hai tu mangiato il tuo riso? Aiuta la bonifica delle zone paludose, aiuta i produttori, le mondine, la Patria, te stesso: mangia più riso». Intanto l'Italia si dà arie di potenza coloniale: nasce, nientemeno, la "cucina imperiale", a dar retta a F. T. Marinetti. Ora che abbiamo "L'altra sponda", quella d'Africa, perché non creare «una alimentazione razionale e igienista ... un'alta arte culinaria sorprendente, rallegrante, nutriente e poco costosa; cioè italiana e imperiale?»
Ma, richiesti di suggerimenti, gli intellettuali fascisti si perdono nel banale e nel retorico. Il Grand’Ufficiale Attilio Vallecchi, l'editore di Papini, non va oltre una "alimentazione abbondante, sana e nutriente". Augusto C. Dauphiné vede nel pane la vivanda tipica della razza italiana". «La cucina – si augura – dovrà adattarsi a non essere soltanto la gioia del palato e dell'olfatto; dovrà dimenticare di aver procurato per secoli il godimento della pancia, l'abulia del cervello, l'estasi del tubo digerente, per rispondere alle esigenze della più grande Italia: fornire cioè al nostro Paese cibi che lasciano il ventre piatto, l'intestino libero, la testa leggera». (Scena illustrata, 1938).
Autarchia gastronomica
Belle parole, ma disattese da chi può permetterselo. Nel 1934 l'Almanacco della cucina Sonzogno insegna alle signore fasciste la "zuppa alla borghese", cioè straricca, da farsi con mezzo chilo di piselli, un etto di lardo, 3 litri di brodo, una cipolla un po' arrostita, mezzo etto di burro, un bicchiere di latte, un etto di farina, due uova e, infine, la pasta corta da brodo. Ed anche il "manzo al sugo di cipolle", ben steccato con chiodi di garofano come fanno le signore di Francia e Gran Bretagna, presuppone un cliché altofascista.
Altro che "pane, tipica vivanda italica". Del resto la piccola borghesia "riceve" alle 17 offrendo col vino crostoni di pain carré al "caviale sintetico", come informa La massaia (settembre 1935).
Manie di grandezza che si infrangono nell'autunno 1935, con le sanzioni economiche applicate da 52 stati all'Italia in seguito al conflitto etiopico. La parola d'ordine è ora "mangiare italiano", evitando il lusso e gli eccessi a tavola. Nasce l'autarchia gastronomica, prova generale delle definitive e ben più drammatiche restrizioni di guerra del 1941-44.
Per risparmiare, si riscoprono fantasiosi "surrogati" abbandonati da tempo. Il cioccolato autarchico per esempio, si fabbrica ottimamente senza cacao: con un impasto – nei casi migliori di farina di carrube, nocciola, olio, miele o zucchero (così nasce quella crema che decenni più tardi sarà la "Nutella").
L'acqua minerale, allora costosa, si fa in casa con le Polveri Idriz (bicarbonato e acido tartarico). Il caffè è una miscela di polveri di radici amare, cereali e fichi tostati. Il burro si imita col grasso di bue idrogenato (margarina) e aromatizzato al latte. Lo spumante italico copia anche nel metodo champenois lo champagne di Francia (Ayala, Cinzano), ma spesso è ottenuto aggiungendo al vino solo l'anidride carbonica.
Ma il coniglio, quello no
Nel "piccolo galateo moderno", su Eva, la Signora di Casa svela alle sue lettrici borghesi un piccolo segreto: «In fondo, anche senza carne per due o tre giorni alla settimana si vive benissimo...». Sembrano parole d'oggi.
Si scoprono le carni autarchiche (oggi diremmo "alternative"), ma il Duce proibisce la pubblicità al coniglio, un animale che per la retorica eroica del fascismo sembra troppo pavido per darlo in pasto agli italiani. Chissà quante battute... no, sarebbe "controproducente". Il nuovo "estratto per brodo vegetale" della Wuhrer di Brescia, a base di lievito ed erbe, sostituisce ottimamente quello di carne Liebig. Oggi piacerebbe molto ai vegetariani e ai naturisti, se potessero trovarlo in commercio.
I gerarchi, gli Accademici d'Italia, i giornalisti, gli alti gradi militari e i transvolatori atlantici, possono permettersi antipasti di caviale Malossol e fegato d'oca (nei menù, anzi nelle liste del giorno", niente francesismi per carità); ma dopo le sanzioni i non privilegiati si attengono alla dieta mediterranea, spesso in versione povera.
Ecco il vitto abituale di. una famiglia operaia o piccolo-borghese tipica, secondo un'inchiesta del Bureau International du Travail: «Pane e poco companatico alla mattina, caffè d'orzo per i bimbi, minestra abbastanza lunga a mezzogiorno, pane e polenta la sera, col companatico meno costoso (baccalà, sardine salate e simili)».
Arriva la cucina di guerra
Ma altre "sanzioni". ben più disastrose, stanno per abbattersi sull'Italia. Amalia Moretti Foggia, una delle prime donne ad insegnare all'università, medico e naturalista, sulla Domenica del Corriere è "Petronilla" e dà consigli di cucina semplice, insegnando a riutilizzare e a non sprecare. Inventa ricette geniali come la "crema gialla senza uova", fatta con la zucca, e appariscenti "pesci in gelatina economica", con la colla di pesce. Mancano soprattutto le spezie e i condimenti.
Siamo ora alla gastronomia d'emergenza, alla “cucina di guerra", ai signorsì pronunciati per "dovere patriottico" davanti a minestre scondite e pietanze senza sapore. Comincia il tesseramento, e ormai la dietetica fascista c'entra solo fino ad un certo punto. «Non preoccupatevi, gentili camerate, se vostro marito e i ragazzi sono svogliati a tavola per colpa delle pietanze scondite ... Vi insegno alcune ricettine buonissime anche senza condimenti, o quasi...» Ed ecco il pesce bollito in salsa bianca di farina, acqua, limone e pepe; il palombo e il salmone fresco (proprio cosi, nel 1941…) in trance marinate e arrostite; le seppie acrobaticamente soffritte in un cucchiaio da caffè di olio, molta cipolla e pomodoro; la razza lessata e condita di alloro e una “idea” di burro. (La massaia, in La donna fascista, dicembre 1941).
Ma la tragedia incombe e il destino del fascismo è purtroppo anche quello dell'ltalia. Tra poco, sarà la volta degli speculatori della "borsa nera". Sono tempi in cui perfino il povero budino dolce di semolino", con uova e uvetta, consigliato nel 1936 per "resistere" alle sanzioni (La cucina italiana della Resistenza, ed. Barion), acquista agli occhi del popolo in camicia nera i contorni sfuocati di un sogno impossibile, anzi del delirio più atroce: quello da fame. Intanto, sulle montagne e nelle periferie cittadine, sta nascendo una nuova e più drammatica Resistenza, quella vera.
IMMAGINI. In alto, sotto il titolo, il disegno di Pio Pullini d’una cucina all’interno d’una casa popolare d’epoca fascista, con tanti bambini come predicava il Regime (in Petrucci A., L’aratro e la spada : letture per la terza classe dei centri rurali, Roma, Libreria dello Stato, A. XIX, 1941). Seguono manifesti di propaganda, libri di cucina e riviste d’epoca, due surrogati di caffè molto in voga in quegli anni. A causa delle forti restrizioni, si tirano fuori dai fondi di magazzino perfino vecchi opuscoli sulla “Cucina di guerra” e gli “Orti di guerra”, sì, ma della guerra precedente, quella del 1915-18!
AGGIORNATO IL 4 SETTEMBRE 2014
4 Comments:
Stupendo! Non sapevo quasi nulla. Grazie.
Bella ricostruzione storica. Complimenti.
Soon sorpreso ed incuriosito dal libro di Emilia Zamara "La cucina italiana della resistenza". Mi domando come possono essere le ricette in esso contenute. Pollo alla garibaldina? Spaghetti alla "bella ciao"?
"Resistenza" era lo slogan contro le Sanzioni: non solo c'è nel testo, ma proprio accanto all'immagine del libro c'è quella del manifesto "Italiani, resistete!" che avrebbe dovuto far capire il significato anche a quelli che guardano solo le figure...:-)
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