10 luglio 2014

CALCIO e miti di potenza. Se un Paese populista viene sconfitto, meritatamente.

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Il calcio è uno sport sano e divertente solo se praticato. Come tifo, cioè il fanatismo di chi lo segue come un qualsiasi “spettacolo”, da sedentario, senza giocarlo, è una sciocchezza adatta tutt’al più a bambini e adolescenti. Il fatto che una squadra di professionisti super-pagati, e quindi tendente a un rendimento costante, possa casualmente “giocare bene o male”, vincere o perdere, a distanza di pochi giorni, con tutto l’allenamento che fa *, è la prova dell’aleatorietà dei risultati di questo gioco, non rappresentativo del valore dei suoi componenti, ma fondato sul caso, sulla psicologia di gruppo e sull’arbitraggio. Quindi, andrebbe considerato più un gioco-spettacolo che uno sport vero e proprio in cui prevale l’abilità, la condizione fisica e il coordinamento.

Ma con tutto ciò, in molti Paesi il calcio è sacro. La partita è un rito, la propria squadra preferita, soprattutto la Nazionale, un simbolo, un facile simbolo nazionalistico di potenza e prestigio, come un tempo l’esercito. Il caso del Brasile è noto a tutti, da decenni. Un intero grande Paese, vede nel futebol molto più che lo sport nazionale: una vera religione, una medicina, anzi, l’unica droga con cui compensare i propri vecchi complessi d’inferiorità, e alleviare sotto la maschera effimera dell’eterna festa, dell’allegria esibita e del continuo Carnevale la propria frustrazione e depressione di massa, insieme con quella famosa tristezza endemica o struggente nostalgia chiamata saudade.

Figuriamoci che accade quando la Nazionale nel Paese nazionalistico e populista perde, e in modo improvvisamente vergognoso (sempre così imprevedibile il calcio: dalle stelle alle stalle), dopo essere stata a lungo osannata. Ci rendiamo conto dello choc. Dopo aver elevato da decenni la propria squadra (la seleçao) nell’empireo degli Dei, dopo essere stato visto nell’immaginario mondiale come “il Paese del miglior calcio sulla Terra”, dopo aver speso per organizzare il campionato del Mondo (la “Copa”) ben 11 milioni di dollari, con cui avrebbe potuto soccorrere milioni di poveri, a cominciare dal popolo delle baracche (le vergognose favelas), ora il Brasile piange, letteralmente, umiliato da una sconfitta insolita perfino per squadrette di provincia di serie B, battuto dalla Germania col punteggio tennistico, neanche calcistico, di 7-1. Ora è psicodramma collettivo, certo, e un popolo abituato a piangere, a lamentarsi e ad addossare la colpa ad altri Paesi, troverà finalmente in questo “grandissimo disonore”, speriamo, la spinta psicologica per ripensare ai propri valori distorti e al proprio sbagliato modello di vita. I giornalisti sportivi, spesso responsabili di questo grossolano equivoco sociologico, potrebbero anche cambiare lavoro.

E già, perché le contraddizioni in cui si dibatte da sempre il Brasile, che con fatica sta cercando di uscire dal Terzo Mondo, sono atroci. Il calcio con i suoi psicodrammi ne è solo un marker, un reattivo. Povertà umilianti di massa contrapposte alle infinite ricchezze di pochissimi privilegiati e collusi col Potere autoritario, incertezza del diritto, distruzione della Natura, compreso il “polmone verde del Mondo”, l’Amazzonia, inquinamento senza pari delle grandi città, corruzione diffusa, inefficienza come norma. E la finalmente raggiunta “democrazia”, dopo tante vicissitudini, che resta ancora incompiuta, soprattutto per difetto di un’adeguata classe dirigente. Che c’è di meglio del calcio, allora, per tenere a bada lo scontento popolare?

I corrotti regimi totalitari e le pseudo-democrazie populiste, soprattutto ispano-americane, è chiaro che devono illudere e distrarre il popolo, vittima delle più gravi ingiustizie sociali-ecologiche-politiche, perché o è mantenuto a forza o si crogiola nell’ignoranza, con qualche effimera “vittoria”. Contro i tanti avversari. Perché, si sa, non sono la propria infingardaggine e il proprio fatalismo, ma sono gli “altri” (in genere nordici o anglosassoni; un tempo erano gli antichi Romani) che hanno tutte le colpe del loro sottosviluppo morale e civile. Loro sono sempre e solo vittime. Così nascono i nazionalismi: da presunti torti subiti...

Questo accade tipicamente nel calcio, simbolico sport finto, il più nazionalistico, il più fazioso, il più casuale, il meno legato alle vere abilità individuali (tant’è vero che una squadra vince o perde indifferentemente a pochi giorni di distanza; nella scienza direbbero: “test non significativo”).

In realtà il calcio è uno spettacolo circense, vero “oppio dei popoli sottosviluppati”, quelli sedentari del corpo e del cervello. Qualcosa del genere deve aver detto lo scrittore dal calcio Gianni Brera. Ecco perché, stranamente, hanno spesso vinto i campionati del Mondo i Paesi meno democratici. Talvolta perfino le Olimpiadi sono state strumentalizzate dai Regimi. Così è stato con tutto il Sud-America dei dittatori, con la Spagna franchista e il Portogallo salazariano, con l’Italia fascista degli anni Trenta, con la Germania nazista, con la Russia del dittatore Putin e la Grecia imbrogliona che voleva vivere al di sopra dei propri mezzi, grazie ai manipolatori dei bilanci di Stato.

Per raggiungere lo scopo, un corrotto Stato populista (che lesina soldi quando si tratta di case, acquedotti, fognature, scuole, trasporti pubblici, difesa della Natura, cultura, educazione fisica o altri bisogni essenziali dei cittadini), non bada a mezzi. Non solo illude con le favole terzomondiste e il Mito della seleçao invincibile il suo popolo, ma da Stato megalomane che guarda solo al prestigio internazionale e agli introiti della pubblicità costruisce in barba alla povertà diffusa nuovi inutili stadi, nuove strade, nuovi quartieri, approfittando per abbattere nuove fette di foresta pluviale, quando non si lascia andare alla manipolazione della stampa, alla corruzione di squadre avversarie, dirigenti internazionali e arbitri.

Ma talvolta le mistificazioni non bastano e, adiuvanti il Caso e la psicologia di gruppo, i veri arbitri di questo sport fasullo, anche la squadra del Grande Paese Populista perde. Deve perdere. E' giusto che perda. Grazie Germania.

(*) Proprio per gli allenamenti intensi, lo stress e i farmaci, oltre alla fatica fisica delle stesse partite, cioè a causa dei radicali liberi prodotti dal corpo, i calciatori, che hanno in media 25 anni, ne dimostrano spesso 40-45…

AGGIORNATO IL 10 LUGLIO 2014

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JAZZ. The Quintet - The Complete Jazz at Massey Hall [Album: durata 1h 13’12”].
MUSICISTI
. “The Quintet” era costituito dal meglio dei jazzisti che avevano fatto la svolta modernista del be-bop: Dizzy Gillespie, Charlie Parker, Bud Powell, Charles Mingus, e Max Roach. 
BRANI
. Perdido (Juan Tizol, Hans Lengfelder, Ervin M. Drake), Salt Peanuts (Dizzy Gillespie, Kenny Clarke), All the Things You Are (Jerome Kern, Oscar Hammerstein II), 52nd Street Theme (Thelonious Monk), Drum Solo by Max Roach, Cherokee (Noble), Embraceable You (George Gershwin, Ira Gershwin), Hallelujah (Jubilee) (Grey, Robin, Youmans), Sure Thing (Bud Powell), Lullaby of Birdland (Shearing, Weiss), I've Got You Under My Skin (Porter), Wee (Allen's Alley) (Denzil Best), Hot House (Tadd Dameron), A Night in Tunisia (Gillespie, Frank Paparelli).
NOTE
. Il 15 maggio 1953 si tenne, mal organizzato e peggio registrato, un epico concerto dal vivo alla Massey Hall di Toronto da cui scaturì il più importante e famoso album jazz registrato dal vivo, subito visto come un vero classico del jazz moderno. Ogni cultore di jazz e di bebop in particolare dovrebbe averne una copia in archivio, e anzi dovrebbe anche leggere l'origine strana e avventurosa di questo album. Lo registrò il contrabbassista Charles Mingus su un registratore a nastro portatile, ma poi lo riversò, corresse e integrò in una seconda edizione migliorata, perché la prima registrazione era venuta male, tanto che l’inesperto “tecnico del suono” si lamentava di non riuscire a percepire il proprio contrabbasso. Charlie Parker suona qui il suo famigerato sax alto di plastica bianca Grafton, e a causa del suo precedente contratto con l'etichetta Verve di Norman Granz è identificato come “Charlie Chan” nelle note di registrazione della versione iniziale (l’etichetta Debut di Charles Mingus). Fu questa l’ultima riunione di registrazione che vide insieme Parker e Gillespie. Bud Powell con il trio non è al meglio, secondo alcuni, tranne che in Lullaby di Birdland, probabilmente ri-registrato un altro giorno.