02 giugno 2014

JAZZ. Capolavoro per caso di Stan Getz “ospite” del trio Louiss al Ronnie Scott.

Curioso e paradossale destino quello del sassofonista tenore americano Stan Getz, che alle asperità del veloce bebop di Parker, Monk e Gillespie preferisce il lirismo cantabile, calmo e rilassato che ormai è diventato la sua riconoscibile cifra stilistica. Non solo è spesso vistosamente fuori dal bebop, ma usa anche le sonorità lievi apprese in gioventù presso la scuola californiana del cosiddetto cool jazz. “Piace alle signore”? Vero, ma non è mai melenso o ripetitivo. Per fortuna le sue “canzoni melodiche” al sax sono innervate ogni tanto da qualche rugosità e increspatura, come le ultime unghiate per sbaglio del vecchio leone nel circo, e soprattutto da un fraseggio e da uno spirito jazzistico onnipresente.
      Il tutto dopo molti ripensamenti e incertezze, perché il musicista è sfaccettato, difficile, soggetto a periodiche crisi, per niente scontato e banale come invece suggerisce la sua musica al primo ascolto inesperto. Insomma, un “finto facile”, qualsiasi cosa suoni, non solo nello “stile Four Brothers”, nato dentro l’orchestra di Woody Herman, che lo ha reso celebre da giovane, ma soprattutto dopo la “svolta” brasiliana della bossa-nova e del jazz-samba.
      Svolta che fa arricciare il naso a molti critici e appassionati esigenti, che solo dopo alcuni anni si ricrederanno parzialmente. Infatti, nel 1962 con piglio finalmente ritrovato Getz dà vita alla propria grande invenzione stilistica, un personalissimo e ben riuscito jazz “brasiliano” che pretende di assimilare con dignità, leggerezza e senza mai scadere nel banale i ritmi del samba, anzi, della bossa nova come si chiama la nuova moda che s’impone in Brasile nelle canzoni commerciali e negli accompagnamenti popolari alla chitarra. Inaugura un vero e proprio genere del jazz che vende milioni di copie e lo fa conoscere e apprezzare non solo ai pochi appassionati di jazz, ma anche al largo pubblico. Sono anni, quelli, in cui le sonorità suadenti di Desafinado e Samba de uma nota só col sax di Stan Getz risuonano come sottofondo anche nelle sale d’attesa dei dentisti e nei supermercati di mezzo Mondo. E sarà una boccata d’ossigeno anche per tanti jazzisti sempre in bolletta.
      Stan, che era nato nel 1927 a Philadelphia da genitori ebrei di origine ucraina (Stanley Gayetsky era il suo vero nome), nei primi anni Settanta, attorno ai suoi 40 anni, cioè dieci anni dopo la fortunata svolta brasiliana, si trova bloccato nel mezzo d’una travagliata crisi di passaggio. Ed è il caso, ancora una volta che gli offre una geniale intuizione mentre è a Parigi per assistere agli Open di tennis. Nei jazz-club parigini dove si reca – svogliatamente, per la mediocre fama che ha in America il jazz francese – conosce l’organista franco-martinicano Eddie Louiss e s’innamora dello stile personale e inimitabile dell’organista e della musica insolita e leggera del suo trio. "Eddy Louiss is a genius" dice in un’intervista a un giornalista francese, come riferirà l’organista americano Joey DeFrancesco. Getz capisce al volo che potrebbe essere un perfetto sfondo per i suoi assoli al sassofono. Ma è fuori casa e non ha con sé la propria musica, così si mette a suonare col trio e con la musica di Louiss. Scopre che l’intesa è perfetta.
      Col nome che ha, non gli è difficile trovare subito l’ingaggio al Ronnie Scott di Londra, il più prestigioso jazz club europeo, dove l’11 gennaio e il 15-16-17 marzo 1971 porta il trio di Louiss “per farlo conoscere al Mondo”. È là che registra all’apice della maturità, 44 anni, le sue migliori registrazioni dal vivo, e il disco doppio “Dynasty” a 33 giri che per la Verve documenta quelle serate sarà un vero e proprio fortuito capolavoro. Lui giganteggia, è ovvio, ma musicalmente è pur sempre un “ospite” dell’originale organista: quasi tutti i brani sono composti da Louiss o dal suo trio e iniziano con gli accordi della sua tastiera. “Questo gruppo non è durato che un anno, ma càspita se non è un grande gruppo”, esclamò un conduttore a Radio France. Eppure è un’eccentricità per il jazz, che non ha mai dato così tanto spazio regolare in dischi con leader famosi a questo strumento, ritenuto sempre “poco jazzistico”.

1. Dum! Dum! (Louiss) - 13:18
2. Ballad for Leo (Thomas) - 9:15
3. Our Kind of Sabi (Louiss) - 17:08
4. Mona (Mangelsdorff) - 8:30
5. Theme for Emmanuel (Thomas) - 11:25
6. Invitation (Kaper, Webster) - 4:37
7. Ballad for My Dad (Louiss, Thomas) - 3:12
8. Song for Martine (Louiss) - 10:52
9. Dynasty (Louiss) - 9:42
10. I Remember Clifford (Golson) - 5:24 (inserito solo nella ristampa su cd del 1989)

• Stan Getz – sassofono tenore
• Eddy Louiss - organo
• René Thomas - chitarra
• Bernard Lubat – batteria

E ora la mia recensione (*) di quegli anni sul settimanale “Il Mondo”, riprodotta così com’era:

JAZZ

Stan Getz, il melodico
di Nico Valerio
Il Mondo, 15 febbraio 1973
Come Charlie Parker, il grande arte­fice del bop che nei primissimi anni '40 rinnovò dalle fondamenta il linguaggio e la tecnica del jazz, anche Stanley Getz, sassofonista tenore di forte personalità, si è « fatto le ossa » nelle big bands. Pare sia un tirocinio obbligato per molti soli­sti. Chissà che un giorno qualche critico non si decida ad interpretare certo esu­berante individualismo e certa demonia­ca tendenza all'improvvisazione, tipici dei grandi nomi del jazz, proprio come reazione agli anni di frustrante routine trascorsi fra le ance e gli ottoni di se­zioni melodiche senza storia né gloria.
      Gli anni di apprendistato in quelle vere e proprie « navi scuola » del jazz moder­no che erano le grandi orchestre degli anni quaranta hanno finito per educare lo stile di Stan Getz al rispetto della linea melodica, al rigore formale, alla preci­sione logica del fraseggio, alla linearità dell'assolo e del chorus (il refrain jazzi­stico).
      Per molti il nome di Getz resta indis­solubilmente legato ai Four Brothers, l'originale quartetto di sassofoni che alla fine del 1947 confluì nel Woody Her­man's Herd (il secondo « gregge » per la precisazione), imponendosi all'attenzio­ne dei critici per uno stile inusitato che diluiva il vigoroso linguaggio dei saxes in un'atmosfera di fresca e rilassata mor­bidezza. Nel jazz prevaleva il modulo « ipotonico »: nasceva appunto il « cool » jazz. Ai sassofoni tenori di Getz, Herb Steward e Zoot Sims faceva da mira­bile basso continuo il baritono di Serge Chaloff; un inedito impasto di sonorità di cui Woody Herman profittò largamen­te (a riprova si ascolti quell'inimitabile capolavoro che è Early Autumn del 1948) fino a farne un elemento caratterizzante della propria orchestra. In fondo veniva trasportata nel linguaggio più articolato della grande orchestra l'essenza stessa del­la raccolta sonorità younghiana.
      Avvenne così che dopo la «dittatura» di Coleman Hawkins che aveva imposto il modulo di un sassofonismo barocco e virilmente irruente, dopo Parker e il suo problematicismo esistenziale, Stan Getz parve impersonare il tertium genus di un melodismo limpido e accattivante che sa­rebbe diventato un nuovo stile da imita­re.
      Eppure, malgrado ogni discendenza da Lester Young, la sensibilità di Getz è diversa; si appoggia poco o nulla ai chiaro-scuri impressionistici e alla mor­bosa sensualità di « Pres », per acquista­re una sua raffinata e classica levità. Con tutto ciò bisogna riconoscere che negli anni sessanta, Stan Getz non aveva avu­to una buona letteratura. Da più parti lo si accusava di non avere abbastanza grinta, di essersi lasciato superare dalle nuove correnti del « hard bop » prima e del « free » poi; altri gli rimproveravano un genere a volte commerciale, un vibra­to leggerissimo alla Paul Desmond.
      Oggi la scena è mutata e nessuno più se la sentirebbe di muovergli appunti del genere: da due anni Stan Getz ha non solo ritrovato se stesso ma suona meglio di chiunque altro, e soltanto Sonny Rol­lins tra i sassofonisti può stargli alla pa­ri. Le sue esecuzioni al club di Ronnie Scott, a Londra, con i suoi nuovi com­pagni europei (tra cui spiccano Eddy Louiss all'organo e René Thomas alla chitarra) nel marzo dello scorso anno fe­cero addirittura scalpore, tanto che il cri­tico del severo The Observer affermò ca­tegoricamente: « E' dubbio se Stan Getz abbia mai suonato meglio nella sua vi­ta »; altre lodi sviscerate si meritò nel corso della sua felice apparizione al Fe­stival di Bologna nello scorso ottobre.
      Una musica magnifica, senza programmi, senza velleità né mistificazioni; uno stile squisitamente e intrinsecamente jazzistico che non cerca intese col pubblico su basi extramusicali, ha scritto la rivista italia­na di jazz presentando le registrazioni dal vivo dei concerti londinesi, ora in distribuzione anche da noi (Stan Getz, Dynasty vol.1-2, Verve SVL 52027-8), e mai critica è stata più veritiera.
      Dopo anni di défaillances da parte di musicisti velleitari fin troppo osannati, dopo la perdita del grande Coltrane, il jazz sem­bra aver ritrovato il più completo dei suoi sassofonisti ancora in attività. E non è poco.
N. V.

* [Questa recensione inaugurò, paradossalmente con un musicista e un disco che non erano tra i miei preferiti, quella che si può considerare la prima rubrica stabile di jazz in Italia sulla grande stampa, cioè fuori delle riviste specializzate di musica; ma fu anche il mio primo articolo critico professionale. Iniziava così, e sul prestigiosissimo settimanale Il Mondo, che per me giovane liberale laicista e crociano era il massimo, la mia carriera di critico jazz, di molti anni precedente a quella di scrittore di nutrizione e storia dell’alimentazione. La mia emozione era raddoppiata dal sapere che la pagina ospitava anche la critica del grande Giorgio Vigolo, famoso critico di musica lirica e sinfonica, ma che io ero tra i pochissimi a conoscere e apprezzare come un Mito della letteratura perché era il riscopritore ed esegeta indiscusso dei “Sonetti Romaneschi” del grande G.G. Belli con la famosa prima Edizione critica in 2 voll. uscita da Mondadori. Un monumento che troneggiava davanti alla mia scrivania. Che onore per me, giovanissimo, appassionato di jazz ma anche del Belli, poter scrivere sotto l’ala severa e rassicurante di Vigolo! Fu lui a complimentarsi e a consigliarmi di continuare la strada della critica jazz].

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