01 agosto 2007

JAZZ. Anni ‘70: la Fiera Letteraria pubblica una grande inchiesta sul jazz.

Archie Shepp recente rielaborato in bn

Inchiesta sul jazz

PER UN SASSOFONO

SI PUO’ DELIRARE

di NICO VALERIO, Fiera Letteraria, 9 giugno 1974
Disegni di Luigi Tilocca

IL SASSOFONISTA sta suonando il suo as­solo ormai da quaranta minuti e non accenna a concludere. Basco nero un po' di traverso, un completo grigio ferro con gilet al posto del dashiki africano dei vecchi tempi, quello che fu il «musicista della protesta», «l'ideologo dell'avanguardia free e del Black Power» soffia la sua musica poetica e delirante (meno spigolosa del solito, però) con una compunzione che sorprende. Sul suo lu­cido sax soprano il riverbero delle lampade so­lari – sarà un caso? – si fa accecante. Quando finalmente l'aberrante chorus ha ter­mine, la canea del Palazzo dello Sport ha un sussulto ed esplode. Non dovevano essere molto diversi gli antichi trionfi nel circo.*

Sonny Rollins al festival di Montreux (NV picc.firma) copia E' cronaca di oggi, degli ultimi giorni di marzo. Chi era presente in quella bolgia infer­nale non dimenticherà facilmente quei dram­matici cinquanta minuti con un Archie Shepp trasognato e assente, l'ombra del leone d'un tempo, nel concerto finale del VI Festival Internazionale del jazz di Bergamo. Una scena per molti aspetti emblematica. Gli spalti gremiti di migliaia di giovani vocianti (per molti, lo si indovinava, era il primo concerto jazz), il luogo certo non consacrato alla Musa, dalla rovinosa acustica (il festival vi si era trasfe­rito in tutta fretta per l'imprevista affluenza di pubblico), lo stesso atteggiamento dimesso di quello che era stato il Bunuel o il Carmelo Bene della «nuova musica» degli anni '60 (quante provocazioni avevano dovuto ingoiare i benpensanti), tutto era in un certo senso nuovo e singolare per lo spettatore.

Davvero – si è chiesto qualcuno – il fu­turo del jazz ci riserva platee a perdita d'oc­chio e l'atmosfera caotica e godereccia degli antichi circenses? Che cosa è mutato, nei modi di «fruizione » e nel pubblico, perché «la più rilevante forma d'arte musicale del secolo XX », che è sempre stata un fenomeno minoritario, per conventicole di amatori, praticata in luoghi quasi catacombali, scopra ora il contatto con la folla nelle piazze, negli spazi aperti, negli stadi? Più d'un Adorno o di un Lévy­ Strauss dovrebbero vegliare per rispondere agli interrogativi posti dalla nuova scena del jazz, una realtà più sfaccettata d'un cristallo irregolare.

Contrabbassista (dis. Tilocca)Negli Stati Uniti parlano non solo di ripresa ma addirittura di «boom»: la solita esagera­zione. I fatti e le cifre, però, parlano chiaro. Sorgono a decine nuovi locali, mentre si ria­prono quelli attorno alla 52a strada, chiusi du­rante la « grande depressione » degli anni '60, che aveva coinciso con l'esplosione del pop. Due film biografici su Billie Holiday e Bessie Smith (il primo ha avuto un enorme successo di pubblico, il secondo uscirà tra poco) hanno innescato un'ondata d'interesse sulle due più grandi jazz-vocalist: la gente si precipita a comprare i dischi e i libri con le biografie. Nella prima settimana del luglio scorso 120.000 persone hanno assistito a New York ad una raffica di sessanta concerti organizzati da George Wein. Le case discografiche, Colum­bia in testa, hanno aumentato la produzione di dischi di jazz, che ormai si vendono almeno come quelli di musica europea « classica ».

In Europa poi vantiamo il locale forse più prestigioso, il Ronnie Scott di Londra, mentre Parigi, Copenaghen, Stoccolma, Berlino, Vienna, pullulano di locali e di musicisti celebri, tra cui grossi nomi americani che in Europa hanno « scelto la libertà ». Libertà di lavorare, perché qui da noi - paradossalmente - i jazzisti trovano un ambiente meno nevrotico, dove non c'è la spietata concorrenza per un « gig », l'ingaggio per una sera, che affatica i musicisti in America (« la mia musica non ama la com­petitività » dice il sassofonista Steve Lacy, che oggi vive a Parigi), ma anche libertà del pre­giudizio razziale e, tutto sommato, maggiore considerazione per « l'artista ». « In Europa tutti mi considerano e mi fanno sentire un ar­tista, ha detto Art Farmer durante il suo re­cente soggiorno romano, mentre negli Stati Uniti ero solo un suonatore di tromba ».

Batterista (prob. Billy Cobham) (dis. Tilocca)Grazie al rifiorire delle manifestazioni mu­sicali – privati ed enti locali affidano spesso al jazz i loro programmi di politica culturale – una  considerevole massa di giovani, delusi dalie monotonie del pop consumistico, ha sco­perto il jazz come musica d'arte o, se si vuole, alternativa. A Roma si è aperto da qualche mese un locale interamente dedicato al jazz, il Music Inn, che ha presentato nomi come Art Farmer, Mal Waldrom e Steve Lacy, Johnny Griffin e Dexter Gordon, Teddy Wilson, Ornette Coleman, e altri ancora. Ebbene, in un locale del genere, che è già al livello dei migliori in Europa, ogni sera giovani e teen-agers hanno fatto il «tutto esaurito», accanto ai trentenni e ai quarantenni. Hanno applaudito non solo l'avanguardia e la musica free ma anche l'one­sto «mainstream», un jazz moderato e non troppo moderno, delle big band di un Rosa o un Vittoríni.

Fenomeni che interessano più lo studioso del costume che il musicologo si verificano puntualmente ad ogni festival. Un giornalista inglese era allibito di fronte allo spettacolo di diecimila giovani che si assiepavano nella Piazza Grande di Perugia e nelle vie adiacenti durante la rassegna di « Umbria jazz », nel­l'agosto scorso. La manifestazione era gra­tuita, e molti ragazzi erano arrivati con mezzi di fortuna da ogni parte d'Italia, portandosi die­tro il « sacco a pelo » per il bivacco. Normale, o quasi, per la musica pop, incredibile per il jazz, musica di minoranza e di « occhialuti intellettuali ».

Fortuna che in tanta euforia c'è qualcuno che si preoccupa di fare «l'avvocato del dia­volo» versando molta acqua sul fuoco. A ragione, Arrigo Polillo, il numero uno della cri­tica italiana e direttore di Musica Jazz (che ha di molto aumentato la tiratura), non vuol sentir parlare di «boom ». « Malgrado la ri­presa - dice - ancor oggi la stragrande mag­gioranza del pubblico giovanile è attirata dal pop e ignora il jazz. In Italia, a giudicare dalle cifre dì vendita dei dischi, dall'afflusso dei pubblico ai concerti e dalle tirature delle rivi­ste specializzate, si può dire che il rapporto tra cultori di jazz e cultori di pop sia oggi di uno a venti, a dir poco ». E' evidente cioè che solo i più preparati musicalmente o i meno sprovveduti culturalmente tra i giovani sbar­cano sui perigliosi lidi della musica di Parker. La novità, piuttosto, è che questa « intelli­ghentzia » under 23 solo due-tre anni fa non esisteva.

Detto questo, vediamo che cosa attende il nuovo pubblico del jazz. Se, intanto, le mi­gliaia di neofiti sperano di assistere da vicino ad un'emozionante rivoluzione musicale, che so, ad una serie di proclami ultimativi con cui viene dato l'aut-aut alla Tradizione, al Buon Co­stume musicale e al Bello Estetico, be’, possono anche approdare ad altri lidi. Il jazz oggi, dopo la stagione eroica della «free music» – una scappatella durata cinque-sei anni, forse più, se si include « l'ultimo » Coltrane – è di­venuto abbastanza saggio e guardingo. Le in­tenzioni musicali del free erano lodevoli, come quelle di tutte le avanguardie: liberare il jazzman dalie costrizioni formali di tonalità, di timbro, di ritmo, dell'improvvisazione standard, per arrivare ad uno stadio gioioso e caotico di improvvisazione collettiva, a « zone » di ten­sione orgasmica, insomma a una sorta di creatività nascente. Ma i guai cominciavano sul piano estetico. Stabilita un'equivoca relazione “forma uguale contenuto”, a forza di privilegiare il « messaggio » sociale o razziale o rivoluziona­rio rispetto alla forma musicale, i « progressi­sti » del free non si rendevano conto di tor­nare indietro addirittura all'estetica romantica, dalla quale la moderna critica aveva fatto tanto per liberarsi, grazie ad Hanslick. Toccava per­ciò ai progressisti (gli altri sarebbero apparsi sospetti) spiegare che una musica non si giu­dica in base alle pur nobili intenzioni politiche che l'accompagnano, ma unicamente sul piano dell'adeguatezza dell'espressione musi­cale. Una polemica che dura tuttora nell'ambiente del jazz.

Leandro « Gato » Barbieri, anch'egli mem­bro della celebre «communion» del free, prima ha accettato di suonare la mediocre e poco jazzistica colonna sonora scritta da Oliver Nelson per il film «Ultimo tango a Parigi » di Bertolucci, poi si è messo a comporre originali brani ricchi di folklore latino-americano, esibendosi con un suo meraviglioso gruppo – con le terga rivolte al pubblico, naturalmente – nella kermesse musicale di Montreux. Oggi Barbieri, abbandonati i forzati modelli stilistici di un tempo, è uno dei migliori e più sinceri jazzisti sulla scena. Di fronte alle sue registrazioni più recenti e anche dal vivo « si resta affascinati dai canto passionale del suo sasso­fono ». ha scritto Arrigo Polillo su Musica Jazz. « La sua voce è íncantatoria e fervida: ascol­tandola pare di assistere ad un rito antico, di quelli che hanno a che fare con le radici stesse dell'esistenza ». Don Cherry, il timido « poeta del free » la cui pocket trumpet (trombetta da tasca) causò più d'un infarto a qualche appas­sionato in là con gli anni, vive in religioso iso­lamento in una comune familiare in Svezia, e non suona molto. Lo ascolteremo presto in Italia, dopo la tournée del sassofonista Ornette Coleman, iniziatore e ideologo della « new thing », uno dei tanti nomi di questa libera musica.

Insomma il free è quasi scomparso come movimento artistico – e in America molto prima che in Europa – ma solo dopo aver li­berato tutta la scuola moderna del jazz da quella rigidità dell'esecuzione, specie nell'invenzione solistica, che la frenava fino a Col­trane. Questa corrente centrale, vera e propria mainstream del jazz moderno, coincide con lo stile del « nuovo hard-bop », un modo corposo e sanguigno sorto in reazione alle diafane atmo­sfere del jazz cosiddetto « da camera » o « sin­fonico » (ricordate John Lewis e Gunter Schul­ler?), del « cool » e del contrappunto salottiero della West Coast. Un bop « duro », che ha raf­forzato il melodismo della musica di Parker, Monk e Gillespie con la pulsazione « africanizzata » dei tamburi di Art Blakey (i piatti, per la prima volta dai tempi del Minton, passano in seconda linea), che ha semplificato e rinvi­gorito il fraseggio dei fiati, che ha riscoperto il blues, il work song, lo spiritual e una sono­rità tipicamente nera, « funky », come si dice in gergo, di un forte sentore di selvatico.

« L'antro del mago » dove prese corpo l'hard ­bop fu proprio il gruppo, mai celebrato abba­stanza, dei Jazz Messengers del batterista Blakey, una scuola da cui sono usciti il sax rigo­glìoso dì Griffin, la tromba lirica e tutta chia­roscuri di Farmer o quella incalzante di Hub­bard ora finalmente primo nella classifica dei trombettisti nel referendum di Down Beat), il pianismo raffinato di Hancock e quello incisivo di McCoy Tyner, il sensuale Gordon, gli ag­gressivi Clifford Jordan, Joe Henderson e Jackie McLean, fino ai grandi Clifford Brown, Kenny Dorham, Elvin Jones (che è il padre della batteria moderna) e molti nomi ancora: insomma tutto il Gotha della scuola del jazz moderno, tranne poche eccezioni del free, è collegato direttamente o indirettamente al­l'hard-bop.

I Jazz Messengers di oggi poi non sono da meno. Al teatro Turreno di Perugia dove ab­biamo avuto la fortuna di ascoltarli di recente la tromba del giovane Charles Jones è ap­parsa del tutto degna del migliore Miles Davis e di Clifford Brown. Si stentava quasi a credere alle proprie orecchie: quella musica ricca di note lunghe e penetranti, aggressiva e poetica ad un tempo, senza dubbio la migliore ascoltata da un anno a questa parte, testimoniava del livello a cui possono giungere anche le nuove leve di questa mainstream moderna.

Il jazz, musica originalissima e inquietante sorta dall'incontro della cultura europea con quello che rimaneva nell'America del nord della cultura africana, espressione « culturale » di almeno una decina di popoli e minoranze etni­che diverse – italiani compresi –  da alcuni decenni ormai fatto culturale anche in senso « culturalista " ed europeo classico (ma può essere suonato e compreso con la stessa sin­cerità a Mosca e a Tokio), rischia proprio ora che si è universalizzato di decomporsi e di sfilacciarsi in una miriade di scuole e di ten­denze. Il pericolo, come in ogni movimento centrifugo, è quello della disintegrazione.

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Il “Duca” è morto, viva il “Duca”

Duke Ellington al piano con cappello (b-n media) LA CRITICA, la stampa, perfino il pre­sidente degli Stati Uniti (che di cose americane se ne deve intendere) sono stati espliciti: è scomparso con Edward « Duke » Ellington il maggiore compositore e diret­tore d'orchestra americano, il fiore all'occhiello della cultura musicale del « nuovo mondo ». Noi, da parte nostra, aggiungere­mo che è scomparsa una delle figure-cardine della storia del jazz. Le musiche che hanno dato l'ultimo addio al « Duca » nella chiesa episcopale di St. John the Divine in realtà hanno dato l'addio a tutto un periodo eroi­co del jazz, dove l'elemento umano, biografi­co, leggendario, ha fatto da cornice roman­tica all'evoluzione stilistica di una musica. La figura dell'autore, dei personaggio, è sempre preponderante nel jazz, musica uma­nissima, quasi a ricordare che l'opera d'arte è pur sempre opera d'un uomo, d'un am­biente umano e sociale. Ciò basta a esorciz­zare i fantasmi della retorica.

Uomo del secolo (era nato a Washington nel 1899, da una famiglia piccolo-borghese) il .« Duca » esordì come pianista di ragtime, uno stile pre-jazzistico influenzato dalla mu­sica europea. Nel '23 l'esordio come diret­tore e capo-orchestra. I suoi « Washingto­nians » sono già l'ossatura della sua leggen­daria orchestra, che resterà unita, con pochi avvicendamenti, per ben 50 anni. Al Ken­tucky e al Cotton Club ci sono già i celebri Harry Carney, i Sam Nanton, i Bigard, gli Hardwick. Ellington sapeva reclutare bene i suoi uomini, ma sapeva anche renderli consapevoli protagonisti di un disegno com­positivo elaborato e raffinatissimo. « Il Du­ca, è vero, suona il piano – disse una vol­ta un suo celebre arrangiatore, Billy Strayorn – ma il suo vero strumento è l'orchestra ». Il periodo del Cotton rimarrà per Elling­ton quello più spensierato ma anche il più ricco di condizionamenti è compromessi. Un'orchestra di negri costretta per contratto a suonare per un pubblico di bianchi alla ri­cerca del colore, dell'esotismo, rievocando improbabili atmosfere « selvagge » o tipo « giungla ». Oggi si parlerebbe di « kitsch » ma il genio di Ellington anche in quell'epi­sodio seppe cavarsela con dignità, creando col «jungle style» una musica ricca di sug­gestioni, di colore e di invenzioni musicali, che prelude,a quella ben più alta degli .an­ni successivi. Il periodo più fecondo e felice artisticamente è senza dubbio il decennio dal '30 al '40; anzi, l'acme della sua carrie­ra è per molti proprio il 1940, quando creò e incise capolavori come Ko-Ko, Cotton Tail, In A Mellotone, Chloe e molti altri, tra cui il celebre Concerto far Cootie, a cui il critico André Hodeir ha dedicato addirittura un intero capitolo del suo saggio « Uomini e problemi del jazz », (Longanesi).

La rivoluzione ellingtoniana è un po' la rivoluzione copernicana del jazz. Armstrong aveva mutato il confuso collettivismo im­provvisato delle bande New Orleans nel so­lismo d'arte di uno o due strumenti (per lo più a fiat) a cui faceva da sfondo armo­nico-ritmico l'orchestra e da ricamo contrap­puntistico un altro strumento; Ellington in­vece utilizza in primo piano tutti i colori e la potenzialità sonora dell'orchestra come il pittore fa con la tavolozza. Niente privilegi per uno o più strumenti, con gli altri a far da sfondo. Una scrittura musicale tagliata su misura per la personalità e le capacità dei singoli musicisti, i quali collaboravano non solo nel momento dell'esecuzione con improvvisazioni più o meno concordate, ma anche nel momento dell'ideazione musicale. Il risultato era un'invenzione musicale col­lettiva, ma sapientemente «diretta », se è vero che la sonorità tipica, il « sound » del­l'orchestra del Duca resteranno invariati e inimitabili per tutti questi cinquant'anni. Ma artisticamente si trattava di opere di alto contenuto musicale, specie le lunghe suites, da Black, Brown and Beige (dedicata a tutti i negri americani, di ogni « sfumatura » e origine sociale) alla Liberian suite, da Harlem suite a The Drum is a Woman, un patrimo­nio artistico di grande bellezza per il no­stro secolo. « Basterebbe molto meno – ha detto Arrigo Polillo, il maggior critico jazz italiano – a qualunque musicista europeo o di tradizione europea per essere annovera­to tra i grandi compositori di questo secolo».

« Ma la pelle di Ellington non è bianca, la sua musica affonda le proprie radici in una cultura "aliena" che si crede possa essere apprezzata solo da "specialisti" e amatori, ridotti al ruolo di "tifosi" del jazz ». Ecco perché la «cultura ufficiale » fa tanta fatica a riconoscerlo tra i grandi, tra i Debussy, gli Strawinski. La ferrea logica del « pregiu­dizio etnocentrico », della cultura nazionale o continentale, colpisce ancora una volta. Una vittima (illustre) in più.

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Coleman, il poeta incorrotto

Il famoso sassofonista Ornette Coleman ha accettato l'invito di suonare davanti ai ricoverati dell'ospedale neuropsichiatrico di Limbiate, vicino Milano. Il valore liberatorio della “terapia musicale”

SI E' SPESSO sostenuto che la musica, unica tra le varie espressioni d'arte, può assumere il valore liberatorio d'una terapia, la buona norma di una raffinata igiene mentale. Coleman ha accettato l'invito rivoltogli dal corpo sanitario dell'ospedale neuro-psichiatrico Antonini di Limbiate, vicino Milano, di ap­plicare questo principio alla lettera ed ha suo­nato col suo gruppo (Norris Jones al contrabbasso, James Ulmer alla chitarra e Billy Hig­gins alla batteria) davanti ad alcune centinaia di pazienti e appassionati. La novità, anche per le particolari caratteristiche della sua musica, non certo facile anche per orecchie « educa­te », ha avuto ampio rilievo sulla stampa.

Di fronte a quel commovente campionario di umanità la musica poeticamente delirante di Coleman, a momenti lancinante e provocatoria ma più spesso ispirata e dolcissima, ha avuto - dicono i testimoni - effetti sorpren­denti. « Molti piangevano sommessamente – ha riferito il critico Franchini – e qualcuno sfo­gava quasi in silenzio un breve attacco iste­rico, proprio nei momenti dì maggior tensione emotiva, quando anche gli altri, i « normali » avrebbero voluto alzarsi e gridare, e liberarsi così dei rovelli interiori, della nevrosi. Per questo, il più commosso era Coleman: proprio la sua musica, un temo accusata di freddezza e di intellettualismo da coloro che non ave­vano sensibilità per capirla, sapeva toccare le corde segrete di una umanità sopita ma ancora palpitante. Una umanità dolente pareva liberarsi per un attimo dalle spire della ne­vrosi, in una catarsi che esigeva intensa par­tecipazione. Un aggancio ala realtà per chi dalla realtà è uscito.

Sul piano storico-stilistico il sassofonista Omette Coleman (suona però anche la trom­ba e il violino) è il caposcuola e il maggior ispiratore del « free jazz », una musica tenden­zialmente libera da ogni schema o riferimento armonico e ritmico. Durante una esecuzione possono coesistere due o più accordi fonda­mentali, per di più variabili e più « centri ritmici » sviluppati ad libitum e portati alle estreme conseguenze da ciascun solista, sen­za tenere in considerazione un punto di riferimento comune ma solo delle «zone di con­vergenza» casuali o predisposte. Il free è infatti musica collettiva di tutti solisti, non tanto lontana poi – anche in questo caso gli estremi si sfiorano – dallo spirito bandistico di New Orleans. L'amalgama collettivo è tale che sarebbe difficile pensare a questa musica senza l'apporto della lirica tromba di Don Cherry o le originalissime percussioni di Hig­gins.

Sul piano artistico Coleman è un grande poeta e un compositore dotato di illimitato fervore creativo, di esasperata fantasia melo­dica. I suoi tipici brevi « riffs » (frasette ripe­tute di indubbio valore suggestivo), le sue filastrocche fanciullesche condite dì un'ironia distruttiva, l'aria stralunata e astratta dl certe costruzioni melodiche, il fraseggio velocissimo e a singulti, l'angoscia di certe iterazioni drammatiche e sconvolgenti, confermano in pieno la matrice espressionistica della sua musica, come in fondo è stato detto di tutto il jazz, appena rotta di tanto in tanto da improvvisi squarci di intensa soggettività. Non è il solo del resto a rivalutare la dimensione lirica della musica moderna, anche Archie Shepp sta risco­prendo « il blues che è in ogni jazzista », che per la scuola jazz è un po' quello che i Lieder rappresentano per la scuola europea. Ma, lirismo a parte, resta nel linguaggio colemaniano un andamento «schizofrenico » che propone non gratuite analogie con la musica di Parker, suo modello primo e ispiratore « culturale », e su su fino alla pittura dl Van Gogh, di Munch.

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Scheda di Ornette Coleman

· E' nato a Fort Worth, nel Texas, 44 anni fa.

· Inizia lo studio del sassofono contralto a 14 anni e verso i 19 comincia ad esibirsi nelle orchestre di « rhythm and blues » (musica commerciale negra). Conduce pe­rò vita stentata e per qualche tempo fa il « lift » in un grattacielo.

· Solo a 28 anni riesce a incidere la sua prima opera, col trombettista Don Cherry. Si tratta di « Something Else», che fa sensazione. La sua opera significativa­mente intitolata «Free jazz» - una lunghissima improvvisazione collettiva - del '60, allarga lo scandalo. Lo si accusa di non saper suonare lo strumento, le pole­miche nella critica e nel pubblico conti­nueranno poi per circa un decennio. Ora l'opera «Free jazz» viene concordemente considerata tra le più importanti e ori­ginali degli ultimi quarant'anni.

· Altre sue opere importanti: Ornette On Tenor, Twins, Town Hall 1962, Golden Circle vol. 1 e 2, Science fiction, The Skies of America.

· Frasi: « Una volta ho suonato a un con­gresso di architetti americani, durante un dibattito sul "bello estetico": ebbene, io ero stato chiamato per rappresentare il "brutto" ».

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Intervista
Parla Gaslini, il demiurgo italiano

Giorgio Gaslini al piano.(media) GIORGIO GASLINI, 44 anni, di origine mila­nese (ma vive ora a Roma, ora in una villa-convento a Gorro nell'Emilia, una sorta di cenacolo artistico in cui spesso invita allievi e musicisti) è il più prestigioso jazzista italiano e forse europeo, noto anche come compositore di musica contemporanea. Eclettico fino all'ubi­quità musicale – è una sua felice invenzione la formula della «musica totale», del tutto indipendente dai tradizionali « generi » – è considerato un po' il demiurgo del jazz italiano anche per una sua riconosciuta tendenza al­l'egocentrismo. Ha al suo attivo incisioni da antologia come « Nuovi Sentimenti » con Don Cherry e Gato Barbieri, colonne sonore di suc­cesso come « La notte » dell'omonimo film di Antonioni, originali suites come « Oltre », «Africa», « Message » e varie composizioni liriche e strumentali, di cui una (« Opus » per flauto solo) scritta per Gazzelloni.

- Proviamo a domandargli cosa pensa della recente Legge sui Teatri lirici che per le pres­sioni corporative dei diretti interessati, i lavoratori degli Enti, ha destinato decine di miliardi di lire soltanto all'Opera, ignorando altre o più valide forme musicali, come la musica concer­tistica o in genere strumentale e il jazz.

« Meglio non parlare, per carità – dice Ga­slini accalorandosi – Basti pensare che nove volte su dieci i cartelloni dei nostri Enti lirici conten­gono solo melodramma italiano. Un reperto archeologico, una cosa d'altri tempi che ha l'uni­co scopo di far lavorare le « masse » di orche­strali e di coristi e di accontentare pochi e sempre più anziani appassionati. Questi oltre­tutto potrebbero sentirsi i dischi a casa propria, visto che le opere sono sempre quelle, invece di gravare per decine di miliardi su tutti i contribuenti, che magari vorrebbero ascoltare altre cose ».

- Delle imponenti « piramidi di Cheofe », insomma, da mostrare più come status symbol che come risposta alla domanda culturale della gente.

« Certamente. Oggi è assolutamente immo­rale investire tutto il bilancio musicale dello Stato in Traviate e Rigoletti. Il pubblico nella musica cerca anche un'immagine dei propri tempi, vuole che l'opera musicale parli della realtà odierna, come le opere di Mozart indub­biamente erano vicine alla realtà del mondo del Settecento. E soprattutto il nuovo pubblico, specie i giovani, vuole ascoltare la musica nei luo­ghi dove vive la gente, nei quartieri, non nelle vecchie strutture ideate secoli fa per l'ascolto musicale ».

- D'accordo, ma tu, da parte tua, cosa fai per portare la musica verso la gente?

« Debbo dire di essere coerente con le mie idee sulla fruizione musicale. Ho portato e porto tuttora il mio gruppo jazz in giro per l'Italia, badando soprattutto ad essere presente nelle piazze dei paesi, nei dopolavori delle fabbriche (gli operai sono contentissimi e smentiscono quelli che dicono che senza una solida prepa­razione culturale non si può capire il jazz), perfino negli stadi. A Perugia, durante la scorsa edizione di « Umbria-Jazz », abbiamo suonato nella Piazza Grande di fronte a diecimila per­sone, di cui moltissimi erano giovani arrivati con il "sacco a pelo" per il bivacco. E' questo il pubblico sincero che mi entusiasma ».

- Ora, se permetti, trasferiamoci nell'atmo­sfera più ovattata del conservatorio. Qual è l'« interpretazione autentica » della sfortunata vicenda del corso di jazz all'Accademia di S. Cecilia?

« E' molto semplice.. A due giorni dall'inizio del terzo corso accademico, il 1973-74, mi viene recapitata una lettera del nuovo direttore, Jacopo Napoli, in cui mi si informa brusca­mente che «per carenza di aule il corso è abolito con decorrenza immediata ». Non era vero, naturalmente, le aule c'erano e ci sono. Il corso era poi vitalissimo: già una decina di allievi si erano iscritti quest'anno, il numero massimo consentito dal Ministero per ogni classe. Quando esistono corsi con uno, due allievi... ».

- Come spieghi allora l'atteggiamento a dir poco singolare del maestro Napoli?

« Più che di antipatia per questo o quel do­cente, o di una meditata scelta culturale, credo che questo comportamento autoritario sia frutto di una totale chiusura verso le novità di ogni genere, jazz compreso. Però è vero che l'ultima parte del nostro corso, che si è svolta durante la gestione Napoli, è stata sottoposta a tutta una serie di ostruzionismi, ultimo e il più clamoroso l'abolizione del saggio finale degli allievi ».

- Allievi che in ogni caso hanno già dato prova di sensibilità jazzistica e anche dell'efficacia dei nuovi metodi didattici. Mi riferisco agli Urbani, Giammarco, Scascitelli...

« E' vero, molti di questi ragazzi e ragazze stanno già girando l'Italia guadagnandosi pre­stigio e successo. Del resto tutti i nuovi musi­cisti di jazz di cui si sente parlare oggi in Italia o sono usciti dal corso di S. Cecilia o ne sono stati comunque influenzati».

- E' molto importante, quindi, il posto che assegni al jazz in un Conservatorio...

«E' un ruolo di grande dignità. In fondo, oltre che autonoma musica d'arte, è espres­sione di una cultura utile per capire anche la musica moderna e contemporanea, da quella colta a quella di consumo. Non dimentichiamo che artisti come Stravinski, Ravel, Kurt Weil, Bela Bartok e altri, hanno subito l'influenza di certe strumentazioni jazzistiche, dei ritmi, di un certo modo di condurre la melodia e d'intendere i rapporti tra melodia e ritmo, tipici del jazz. Ma il jazz mi sembra utile anche in Conser­vatorio per l'aspetto della spontaneità. Adorno dice che oggi è quasi impossibile per un musicista essere spontaneo: quale scuola migliore del jazz per abituare l'allievo ad esprimersi liberamente, senza sovrastrutture? In certi casi poi, come nel metodo dell'improvvisazione della musica contemporanea, la pratica jazzistica è addirittura indispensabile agli studenti».

- Un nuovo « approach » alla musica, in so­stanza. Non è il capovolgimento della prospet­tiva tradizionale, che partiva dall'accademia per scoprire, semmai, le « altre culture »?

« Infatti. Specie se si considera che oltre il 50 per cento dei giovani che seguono i miei concerti-lezioni finisce per avvicinarsi anche alla musica moderna e alla musica classica ».

(intervista di Nico Valerio)

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Ascoltare e leggere

SI PUO' dire che il jazz, per primo, abbia instau­rato attraverso il disco la pratica della « opera d'ar­te multipla », per usare una definizione oggi in voga, anche se discutibile.

E' stata una necessità. Nelle matrici metalliche, ri­producibili in un numero elevato di dischi fonogra­fici, si è riversata per de­cenni una fetta sufficiente­mente rappresentativa del­la musica che veniva suonata nei jazz-clubs. D'altra parte il carattere di unicità e di irripetibilità dell'ese­cuzione jazzistica, in cui la variazione improvvisata è sempre presente (per anni, ogni sera, veniva chiesto a Coltrane di suonare « Round Midnight », e ogni volta erano rilevanti le variazio­ni solistiche!) rende neces­saria un'attenta ricerca di­scografica non solo delle opere contemporanee, ma anche di quelle del passato per avere un panorama suf­ficiente del fenomeno. Per questo l'appassionato è un collezionista per costitu­zione. Come Vivaldi non è stato «superato» da Stra­vinski, così Coleman Haw­kins non è «vecchio» ri­spetto a Sonny Rollins.

A complicare le cose si aggiunge l'incertezza delle distribuzioni di dischi e l'aleatorietà delle ristampe italiane di opere straniere o delle importazioni. E' preferibile in certi casi (e poco costoso) procurarsi i dischi più rari direttamen­te per posta, da fornitori inglesi e scandinavi.

Il serio appassionato non potrà comunque prescinde­re dalle imponenti discogra­fie di Brian Rust (« Jazz Records: 1897-1942 », Do­bell's, 75 Charing Cross Rd, London WC 2) e dello Jep­sen («Jazz Records: 1942­1969» ed. Knudsen, Moth­svej 56 Holte, Denmark), né dalla critica discografi­ca ragionata (disco per di­sco, autore per autore) di facile consultazione e in un chiaro inglese, qual è « Jazz on Records » (Hanover Books, 4 Mill St. London W1). Per le discografie « essenziali » è bene riferirsi alle rubriche del men­sile Musica Jazz e alle di­scografie pubblicate in va­rie raccolte di saggi (p. es. quella molto sintetica nei « Grandi del jazz » di Fa­yenz, ed. Nuova Accade­mia, fino ai primi anni ses­santa; mentre per il successivo periodo « free » è utile la discografia di « Free jazz/Black Power » di Carles-Comolli, editore Einaudi, 1973).

Tra le storie di impianto generale, la più notevole e ricca di informazioni è quella di Barry Ulanov («Storia del jazz in Ame­rica», ed Einaudi), che pe­rò arriva soltanto al 1940-­41 (si può vedere però an­che la storia dello Stearns, da Feltrinelli), mentre tra i manuali di rapida e sicu­ra consultazione la palma spetta al celebre « Libro del jazz » di Joachim Berendt (ed. Garzanti), ora anche in edizione economica, che permette una sicura collo­cazione critico-stilistica. di correnti e musicisti. Le poche enciclopedie (Feather, Polillo, ecc.) non sono ag­giornate da molti anni e mancano della giusta prospettiva storica. Tra i sag­gi critici è « obbligatorio » leggere «Il popolo del blues» di Le Roi Jones (ed. Einau­di) e « Uomini e problemi del jazz » di Hodeir (Lon­ganesi). Stimolanti anche i più recenti « Il jazz dal mito all'avanguardia » di Fayenz (ed. Sapere) e «Free Jazz/Black Power» di Carles e Comolli (ed. Einaudi). Per i dati biogra­fici e discografici sono uti­li anche le 12 piccole monografie della Ricordi, re­peribili nei Remainders.

L'unica rivista specializ­zata italiana è il mensile « Musica Jazz », Corso Eu­ropa 5-7, Milano (quando fu fondata, trent'anni fa, il termine jazz veniva ancora usato come aggettivo-appositivo di musica), per anzia­nità la seconda rivista euro­pea di jazz. Fondata nel 1944 dal musicologo G.C. Testoni, è diretta da molti anni dal critico Arrigo Po­lillo e conta critici di pre­stigio.

Abbastanza fluttuante l’informazione jazz sulla stampa quotidiana e perio­dica. I più importanti quo­tidiani seguono attraverso propri critici concerti e ras­segne avvenuti nella pro­pria « area di diffusione ». Ma una rubrica fissa di critica o informazione jazz è ospitata soltanto dal quo­tidiano "Il Giorno" (lunedì, informazione) e dal setti­manale "Sette Giorni" (cri­tica). Significativo è anche che i settimanali musicali per giovanissimi ("Super­Sound", "Giovani" e "Ciao 2001") accanto agli articoli sui beniamini della musica pop hanno anche una o due pagine di jazz.
NICO VALERIO (Fiera Letteraria, 9 giugno 1974)

FOTO. 1. Archie Shepp in tempi recenti, foto di autore anonimo rielaborata al computer e trasformata in bianco-nero. 2. Sonny Rollins al Festival di Montreux (foto di N. Valerio, b/n. originale, Exakta VarexII-ob.Jena Tessar). 3. Duke Ellington. 4. Giorgio Gaslini, foto dal suo sito.

DISEGNI originali in bianco e nero di Luigi Tilocca. Il primo allude a un contrabbassista nero in abito da sera, che potrebbe essere Percy Heath del Modern Jazz Quartet. Il secondo disegno rappresenta una celebre immagine del batterista Art Blakey: era in bianco-nero nell’originale, ma ora è stato virato in rosso al computer. [I disegni allegati all’articolo originale erano tre: il terzo è ancora da inserire].

(*) I brani eseguiti dal quartetto di Archie Shepp al festival di Bergamo del marzo 1974 erano: Along Came Betty (10:59), Sonny's Back (7:56), 'Round Midnight (4:43), Things Have Got To Change (48:38). Il gruppo: Archie Shepp ts, ss, p; Siegfried Kessler p; Bob Reid b; Noel McGhee dr.

AGGIORNATO IL 1 DICEMBRE 2014