29 novembre 2011

ETICA e intellettuali. Se la fine della vita deve assomigliare o no alla vita stessa.

Lucio Magri b-nLa nostra vita è nostra o no? E’ lecito, possibile, anzi desiderabile, programmarne la fine, allo stesso modo in cui ne abbiamo prefissato il fine?

Vecchia questione filosofica e morale su cui si sono accapigliati pensatori e teologi, senza arrivare a nessuna conclusione condivisa, tranne quella relativistica e di buonsenso secondo la quale ognuno si regola in base alle proprie opinioni e alla propria formazione culturale. E gli altri, zitti, perché, si sa, di fronte alla morte voluta, che non è una finzione, un gioco futile, ma la più estrema e sofferta delle scelte di “vita”, nessuno deve aver nulla da dire. E così siamo di nuovo al punto di partenza.

A questi interrogativi antichi si aggiungono oggi domande nuove, come questa: la Società (Stato) deve o no mettere a disposizione dei cittadini che lo desiderino, senza formalità o condizioni eccessive mezzi dignitosi e discreti con cui mettere fine alla propria vita? In Belgio e Olanda l’eutanasia assistita e legale già è possibile. Perché non in altri Paesi? In queste cose conta o no la volontà del cittadino? E’ forse più dignitoso doversi lanciare dal terzo o quarto piano d’un palazzo? La fine dei registi Monicelli e Lizzani, come in passato molti altri artisti e intellettuali, vecchi e giovani, dovrebbe far suonare un campanello nella testa dei politicanti all’italiana.

Ma c’è anche chi decide di anticipare i tempi perché sa o crede di essere gravemente malato, ormai incurabile. E’ il caso del suicidio freddamente “programmato” dell’intellettuale e politico Magri, e quello più tradizionale e improvvisato del regista Monicelli. E anche quello del magistrato D’Amico, depresso da un’indagine del CSM e poi convinto al gesto estremo presso la clinica svizzera da un’errata diagnosi di malattia incurabile.

Il suicidio dell’intellettuale come la morte in guerra dell’uomo d’arme? Del resto sono migliaia gli intellettuali che hanno posto fine volontariamente ai loro giorni. Tra i grandi ricordiamo Lucio Anneo Seneca e Walter Benjamin, Virginia Woolf e Ludwig Wittgenstein, Cesare Pavese e Primo Levi. Quasi che il dominio della ragione e della volontà non dovesse arrestarsi in chi fa della ragione e dell’intelletto la propria ragione di vita neanche dinanzi alla morte. Ma allora il suicidio sarebbe per l’intellettuale l’unica forma di morte “razionale”?

Esteta raffinato, sicuramente critico severo di se stesso come lo era sempre stato degli altri, uomo di intelligenza acuta e impietosa, dotato di non comune fascino in gioventù e per tutta la maturità, Lucio Magri, grande politico e intellettuale marxista, deve aver confrontato ad un certo punto, secondo lui estremo, della propria parabola i decenni meravigliosi che aveva vissuto con gli anni, forse i mesi – chissà – oscuri e degradanti, che gli restavano da vivere.

E quando era ancora nella sua piena libertà e coscienza, deve aver deciso che il fulgore dei lunghi decenni della propria vita passata non avrebbe dovuto essere cancellato da pochi mesi, forse giorni, di abbrutimento, consegnato, chissà – lui ormai corpo inerte o senz’anima – alla volontà e alle mani di uomini sconosciuti, oppure alla volubilità del Caso, spesso ingiusto con i grandi. Perciò ha pensato che la vita di un intellettuale, fino ad allora sapientemente modulata momento per momento, non potessero essere smentita neanche dalla morte.

Così, il suo suicidio, lucidamente architettato in una cornice di rassicurante ma gelida “scientificità” (l’amico medico che l’accompagna nell’ultimo viaggio, immaginiamo quanto drammatico, verso un’apposita clinica svizzera), è stato paragonato da amici, compagni di lotta politica e avversari. alla “intellettualità” dell’intera sua vita, generando una profonda sensazione di turbamento.

A cui si aggiunge un altro motivo di inquietudine, quello di un’opinione pubblica che scopre all’improvviso una così grande, profonda e inguaribile “infelicità” in un uomo che aveva “sempre trasmesso una sensazione di privilegio, bellezza, perfino superbia”, insomma un “uomo percepito all’esterno come fortunato” (Gad Lerner, nel suo blog).

Come già pochi mesi prima il regista Mario Monicelli – però malato terminale – aveva scelto il suicidio in un ospedale romano (in questo caso, sì, un suicidio “eutanasico”), Magri si è costretto, per inveterata depressione, certo, ma anche per abituale dignità, al suicidio, in qualche modo “pre-eutanasico”, a differenza di Monicelli elegantemente “assistito” da un medico amico e da personale medico specializzato (forse la clinica “Dignitas” di Zurigo? Non abbiamo conferme: è solo una nostra supposizione). La medesima scelta è stata fatta di recente dal politico veneto Vittorio Bisso, malato di sclerosi laterale amiotrofica, come il radicale Welby che implorò la moglie di staccare la spina dell’apparecchio che lo condannava a una vita poco dignitosa.

Così Magri ha voluto programmare finché era ancora lucido e compos sui,  padrone di sé, la propria fine, anziché divenire, chissà, dall'oggi al domani, o a poco a poco, un oggetto passivo incapace di decidere per sé, nelle mani di medici anonimi, maniaci del "salvare" biologicamente una vita, anche solo ritardandone la fine fin quanto possibile, senza porsi il problema della sua qualità, cioè della sua verità, del suo valore.

E questa aberrazione, che è l'errore psicologico principale della medicina di oggi, governata da un'etica cinica e non caritatevole, deve poi essere risolta con fatica, sappiamo quanto drammaticamente, da ognuno di noi. Visto che le leggi ultra-clericali dello Stato Pontificio unificato non aiutano.

Un gesto “emotivo”? Al contrario, un gesto razionale, "innaturale", (ma la ragione è innaturale?), solo nel senso che voleva prevenire un altro possibile rischio di fine "innaturale", quella dovuta all'accanimento pseudo-terapeutico dei medici, che è l’esatto contrario della vita.

Ebbene, in questa tutela preventiva della libertà dell’individuo, in questa preminenza dell’intelligenza dell’uomo, in questo rifiuto dell’umiliante equiparazione della coscienza ad un corpo senza vita vera che l’irrazionalità crudele di una religiose autoritaria obbliga a tenere in vita a tutti i costi, anche artificialmente, io trovo germi della migliore filosofia etica liberale.

JAZZ. L’entusiasmante trombettista Lee Morgan col suo quintetto in Heavy Dipper del1957, dal disco The Cooker (1957). Lee Morgan (trumpet), Pepper Adams (baritone sax), Bobby Timmons (piano), Paul Chambers (bass), Philly Joe Jones (drums). Ancora il grande trombettista dell’hard-bop in A Night in Tunisia nel celebre brano di Gillespie tratto dal medesimo disco del 1957.

AGGIORNATO IL 5 OITTOBRE 2013

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1 Comments:

Anonymous Cittina said...

Bell'articolo, molto morale. Cittina.

5 ottobre 2013 alle ore 23:49  

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