22 aprile 2009

TIFO ULTRAS. Quando la gara è un pretesto la guerra vera è sugli spalti

"Parteggiano per una divisa, e se in piena corsa il colore dell’uno passasse all’altro, anche il tifo e il favore muterebbero", scriveva saggiamente Plinio il Vecchio sugli "ultras" della sua epoca.
Sportivi? Macché. Diciamo bambini faziosi che giocano ad una guerra di simboli, casacche e campanili. L’oggetto della gara, l’esercizio fisico in competizione, non c’entra nulla. Serve solo ad avvalorare i propri pregiudizi: il favore aprioristico per i "nostri" e l’odio senza tregua per gli avversari, anzi i nemici.
Perché, ai tempi di Plinio c’erano già gli "ultras"? Eccome. Anzi, erano così potenti e organizzati da assomigliare addirittura a partiti. E ne fecero di tutti i colori. I guai che fanno oggi sono rose e fiori, al confronto. E io, come tanti, che ero convinto che in Italia il tifo organizzato fosse stato creato tutt’al più dalle squadre di calcio degli anni Sessanta.
Quante volta dentro e fuori gli stadi i tifosi esagitati parlano di fare una "rivoluzione"? Voi sorridete, ma in passato vere rivolte nacquero così, per motivi sportivi. Come la sfida di gladiatori tra Nocera e Pompei, nel 59, imperatore Nerone, con le opposte fazioni a coprirsi di insulti (sapete com’è in provincia…), ma poi arrivarono anche le sassate, infine gli assalti sanguinosi con mazze e spade. Finì con feriti e morti, e con lo stadio di Pompei squalificato per ben 10 anni.
Ma anche in Grecia e in Oriente non scherzavano. Basta dire che nel 390 l’imperatore Teodosio fece uccidere 15.000 persone per domare una rivolta di tifosi di Tessalonica, l’attuale Salonicco. Ma i disordini più sanguinosi della storia, almeno per numero di morti, avvennero nel 532 dopo Cristo nell’Impero romano d’Oriente. Una rivolta di tifosi "ultras" finì in ribellione politica vera e propria, che mise a ferro e fuoco l’intera città di Costantinopoli, e fece traballare lo stesso impero. Finì con la bellezza, scusate il cinismo, di 35.000 "tifosi" trucidati nello stadio.
Debbo all’amico Stefanini, autore di un intrigante libro uscito da pochi giorni, queste chicche di storia del costume e dello sport, se vogliamo chiamarlo così, che dai tempi antichi arrivano ai giorni nostri. Ignoravo che le bande di tifosi dell’Antichità fossero, più ancora di oggi, connotate politicamente. Come veri e propri partiti, i Demi.
Ma a riprova che lo sport di squadre è un’imitazione ritualizzata della guerra, insomma un Bignami della battaglia militare, i disordini continuarono per tutta la Storia. Cambiava solo lo sport, ma i morti e feriti c’erano sempre. Tanto che nel 1314 re Edoardo I d’Inghilterra bandì il football per la violenza che provocava. Non tanto tra i giocatori, ma tra il cosiddetto "pubblico", in realtà, il vero protagonista neanche tanto occulto di questa guerra per interposte squadre. Senza citare, poi, le risse e le aggressioni tra gli opposti tifosi delle contrade di Firenze o Siena, divise dal "giuoco della palla", che appunto furono i toscani a inventare o ripristinare.
Il tifo estremo è dunque l’argomento di un brillante e agile libro storico di Maurizio Stefanini che si legge tutto d’un fiato: "Ultras. Identità, politica e violenza nel tifo sportivo", ed Boroli 2009. 12 euro. E che sono sicuro piacerà sia a chi è tifoso, sia a chi come me è un anti-tifoso. Perché ci sono obiettivamente le ragioni storiche e psicologiche sia degli uni che degli altri.
L’autore, brillante giornalista e saggista, si occupa di movimenti politici comparati, di problemi del Terzo mondo e di divulgazione storica. Collabora con vari giornali e magazine, dal "Il Foglio" a "Limes". La Presentazione è di Paolo Liguori, giornalista esperto anche di calcio, direttore di Tgcom.
Ma come, diranno i colleghi, dai problemi della democrazia nel mondo, Stefanini è passato al tifo sportivo? Nessun salto logico, a ben vedere: il parallelismo c’è, eccome. Nulla di strano, scrive lui stesso, che tifo estremo e democrazia paradossalmente "si affermino assieme, proprio perché la democrazia, come il tifo, è una "guerra" ritualizzata".
Una nota in margine, infine. Per i più studiosi ed eruditi, per noi scrittori, saggisti o giornalisti "da ricerca", si impone la lettura della ricchissima bibliografia ragionata, che da sola vale quasi l’intero libro. Stefanini ha correttamente diviso per argomenti le fonti bibliografiche, e basta scorrere con gli occhi i titoli selezionati per tema per godere di tante illuminazioni e cedere al desiderio di andare a compulsare testi importanti della cultura, visto che il costume, lo sport e gli spettacoli attraversano la storia dell’uomo in modo orizzontale. Una sorpresa nella sorpresa.
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JAZZ. Art Pepper è stato fin da giovane un grande "tecnico" espressivo del sax contralto. Eccolo in quartetto nel brano What Is This Thing Called Love (1956). Art Pepper (alto sax), Russ Freeman (piano), Ben Tucker (bass), Chuck Flores (drums). Tratto dall'album 'Modern Art'.

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1 Comments:

Blogger Nico Valerio said...

In vita mia sono andato allo stadio una sola volta, per un Roma-Juventus, nonostante che da piccolo amassi dare calci al pallone come tutti i ragazzini, e anzi nella prima adolescenza fossi un coriaceo fallosissimo terzino destro della Vanguard, squadra giovanile di non so più quale grado di promozione. “Bei” tempi, in cui non erano puniti né i calci negli stinchi dell’avversario, né il fuori-gioco.
Ma non sono mai stato un tifoso e ho sempre odiato il tifo. A 12 anni fu naturale per me tenere per la Juve, proprio perché ritenuta allora la più aristocratica, la meno tifosa delle squadre, quella che ammirava il “bel gioco” con spirito inglese, il cui presidente – unico – era solito lodare le squadre avversarie. Insomma, retorica o no, ero della Juve non perché tifoso, ma perché anti-tifoso. Dicevo che andai solo una volta allo Stadio (l’Olimpico di Roma), e per aver incitato la squadra ospite ricevetti un’ombrellata in testa.
Capìì allora, a 12 anni, che la partita sul prato era una finzione, un pretesto, e che la vera partita si giocava sugli spalti tra “spettatori di opposte fazioni”, forse là convenuti per loro personali problemi caratteriali. Vidi che il cosiddetto “sport di squadra” era ed è in realtà, oltre al business che sappiamo, uno sfogo per il disagio giovanile, per le divisioni e le psicopatologie serpeggianti nella società, qualche sociologo dice addirittura una “guerra mimata” o “rituale”, e perfino una “lotta politica con altri mezzi”. E’ evidente, del resto, l’analogia dei collettivi, le squadre, con due contrapposti eserciti rappresentativi. Non bastava il “tifo”, parafrasi di una vera e propria malattia (che provoca febbre, ma anche anche diarrea: questo non lo rficorda nessuno), ci voleva il tifo ultras. Decisi allora, che in futuro avrei praticato e ammirato solo gli sport senza tifo, come l’atletica leggera.

22 aprile 2009 alle ore 16:40  

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