23 maggio 2007

MUSICA. Quell’avanguardia ferma agli anni ’70, reazionaria e manierista

L’Istituto Svizzero di Roma dopo aver organizzato una colorita performance del percussionista-batterista-rumorista svizzero Fritz Hauser nella chiesetta accanto alla Villa Maraini, ha proposto ieri sera l’intero gruppo del Quartet Noir, mai come in questo caso "nomen omen", un nome un destino.
Oltre al batterista già detto, c’erano l’americana Marilyn Crispell al piano, la francese Joélle Léandre al contrabbasso e il sax svizzero Urs Leimgruber (a destra nella foto), il più insopportabile dei quattro. Senza di lui un eventuale "Trio Noir" sarebbe più credibile. Senonché, dal piglio autoritario pare addirittura lui il leader carismatico. Eloquente il siparietto nel quale quasi di malavoglia concede magnanimamente di bere alla bassista accaldata e distrutta dai suoi fonemi, e rimanda al piano l’americana che, come una liberazione, aveva creduto di aver finito il set. I gesti secondari sono rivelatori, diceva qualcuno.
Sul programma di sala erano stati descritti quasi tutti come musicisti con esperienze di jazz contemporaneo. Ma era solo per predisporre bene il pubblico, sempre diffidente dopo tante fregature di fronte alla sedicente "avanguardia" o musica "sperimentale". In realtà il jazz, anche il free più rivoluzionario, c’entrava come i cavoli a merenda.
Non c’era nulla di musicalmente strutturato, tantomeno di jazz. Nulla, tranne la solita sperimentazione rumoristica cara all’avanguardia europea "seria", anzi, seriosa, degli anni 70, buonanima.
Credevamo, in tutta sincerità, che quelle lontane, inutili, torture acustiche, i soffi, i gorgoglii, gli sbuffi, i rumoretti, le prolungate cacofonie, gli strumenti smontati e violentati, gli oggetti più disparati sbattuti tra loro o fatti cadere per terra, la gestualità narcisistica, l'atteggiamento ieratico di chi si prende molto sul serio, insomma tutto l'abusato caravanserraglio del rumore extramusicale, che poi è la contestazione al suono stesso, il disprezzo iconoclastico per la musica in sé, fossero ormai relegate nell’aneddotica del decennio "alternativo", i "favolosi anni 70".
A quel tempo felice i giovani che mostravano di essere del giro e di aver capito tutto (anche dove non c’era assolutamente nulla da capire), si sedevano per terra a gambe incrociate nonostante che ci fosse posto a sedere - una cosa che agli occidentali non riesce bene come agli orientali - e i critici occhialuti delle prime file ai passaggi più arditi assentivano gravemente col capo, come per dire di essere politicamente della partita.
Ma quale partita? Nel concerto del Quartet Noir si era al più puro manierismo. Quello che doveva essere un salutare, catartico momento di rottura, di crisi, di passaggio, in vista d’una successiva maturazione, la costruzione d’una "Nuova Musica", si è fossilizzato, bloccato a mezz’aria, e incurante del ridicolo si ripete di continuo, è ormai una coazione nervosa dai probabili risvolti psicoanalitici.
Tutto pessimo? No, naturalmente. L’approccio tecnico agli strumenti era, non poteva non esserlo, avanzato. Creative e perfino piacevoli certe clownesche invenzioni rumoristiche del percussionista. Mal utilizzato, purtroppo, il pianismo della Crispell, che si intuiva avere un discreto passato alle spalle. L’unica vera perla, l’originalità della voce della Joelle sullo strumento, i suoi fonemi geniali che diventavano tiritere, scioglilingua assonanti, rasentando più che l’antico canto "scat" o gli shout del pre-jazz, il non-sense del teatro infantile e popolaresco.
Davvero emblematico questo quartetto. Sarà per colpa di certi suoi rivoli provinciali, fatto sta che l’avanguardia europea, a differenza di quella jazz, è diventata maniera, stile fine a se stesso. E’ come se oggi qualcuno rifacesse il Manifesto dei Futuristi e volesse pubblicare le liriche di Marinetti: gli riderebbero dietro perfino i critici dei giornali gratuiti da metropolitana. Altro che avanguardia, siamo alla retroguardia più bieca, alla reazione pura a scopo di lucro (intellettuale, s'intende), comunque alla furberia.
Ah, se i quattro musicisti avessero avuto successo nei rispettivi gruppi d’origine! Come certi pittori mancati che dagli idilliaci paesaggi naturali "si buttano" sull’astratto, dove ogni metro di confronto con i modelli "alti" è impossibile per i non esperti, così i quattro del Quartet Noir non sarebbero ora costretti per vivere a praticare la musica, forse l’unica materia a loro familiare, nel bene e nel male, ma che ormai - è evidente - odiano. Così, gli istituti di cultura che non hanno esperti e soldi per permettersi un vero quartetto jazz (e se ne prendessero uno di scarto, il confronto sarebbe evidente anche alle orecchie della casalinga un po’ acculturata), risolvono con le vecchie, eterne, reazionarie, stranezze della finta avanguardia di periferia. Periferia dell’Impero, s’intende: che altro volete che sia la Svizzera, e ormai gran parte dell'Europa?
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JAZZ. Per rifarci le orecchie, ascoltiamo Art Pepper (sax alto), un sassofonista che significativamente piace molto ai sassofonisti, in "What Is This Thing Called Love". Con Russ Freeman (piano) Ben Tucker (bass) e Chuck Flores (drums). Il brano dura 6.05.

2 Comments:

Anonymous Anonimo said...

Verissimo. Non se ne può più di certi furbi. E magari quelli si sentiranno pure "de sinistra"... come tutte le finte avanguardie. Mentre culturalmente sono di estrema destra. D'altra parte il futurismo...
Hai detto bene. Lo stesso era con Glass e i suoi imitatori, ti ricordi?

24 maggio 2007 alle ore 15:56  
Blogger Nico Valerio said...

Veramente sul programma si azzardava un parallelo con Scelsi, figuriamoci...

27 maggio 2007 alle ore 20:36  

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