12 agosto 2012

SURROGATI. Anni Trenta: lana di latte, benzina di carbone e altre imitazioni.

Ciclo agricolo-industriale per produrre lanital

... STORIA DELLA TECNOLOGIA

COSI’ COPIAVANO

Sofisticazioni, surrogati, imitazioni, prodotti di sintesi, non sono soltanto ritrovati d'oggi. Ecco come le «tecnologie avanzate» dell’anteguerra erano in grado di ricopiare i prodotti più disparati.

NICO VALERIO, Scienza 2000, novembre 1985

Erano proprio cosi sprovveduti i nostri padri, in fatto di biochimica? Dopo la discussa rivalutazione dell'industria di trasformazione e della tecnologia degli anni Trenta, proposta in due affollate mostre a Milano e a Roma, il grande pubblico che era abituato a considerare tipiche dei giorni nostri le diavolerie della tecnologia moderna ha dovuto ricredersi.

Ci si è accorti, insomma, che per fantasia e capacità creativa sono proprio gli anni Trenta l'epoca del primo «azzardo» tecnologico, delle prime «scommesse» di laboratorio, dei primi tentativi di imitazione industriale di sostanze naturali e di materie prime.

Uniforme di lanital per la truppa Ed ecco, perciò, storici della tecnologia e merceologi, scienziati ed economisti d'oggi, incuriositi di fronte alla meraviglia del rayon, la fibra tessile artificiale ottenuta a partire dalla cellulosa di legno o sintetica che imita così bene la sempre più rara e costosa seta naturale. Ecco gli sguardi ammirati davanti alle vetrine dove sono esposti abiti e pullover di lana artificiale o lanital, un filato con caratteristiche merceologiche analoghe a quelle della lana animale, creato in stabilimenti d'avanguardia a partire dalla cascina del latte. Dal latte, del resto, si otteneva già da anni la galatite, una compatta e resistente simil-resina che sostituiva bene il corno naturale, l'ambra, l'avorio, la tartaruga e il corallo. E fino al 1958 tutti gli apparecchi telefonici e tutti gli interruttori elettrici erano fatti di questa lontana parente del formaggio.

L'uomo della strada non lo immagina neppure, ma le sofisticazioni, i surrogati, le imitazioni sintetiche ‑ i beni che gli economisti definiscono come succedanei o alternativi – non sono soltanto dei ritrovati del mondo d'oggi. Al contrario, risalgono alla cultura industriale e tecnologica di cinquant'anni fa, all'epoca delle sanzioni economiche e dei pericoli incombenti di una seconda guerra mondiale. Se andiamo a frugare negli archivi delle grandi industrie dell'epoca, per lo meno quelle che sono sopravvissute fino ad oggi, ci imbattiamo in sorprese inimmaginabili.

NREL_FT_diesel_vs_conventional_diesel_photo E perfino nella penombra dei capannoni di periferia, dove le piccole aziende dei «cummenda» Giobatta, che lavora in ufficio anche la domenica mattina, o la «premiata Ditta Meneghetti Antonio» dell'ex capo-operaio venuto sù dalla gavetta, si industriavano genialmente a rifare sinteticamente perfino il burro da tavola, scopriamo sorprendenti novità, curiosità ghiotte che ancor oggi interessano sia il cultore di storia della tecnologia, sia l'intrigante storico del costume, sia il profano.

Cominciamo da uno dei materiali più vili: la segatura. Una delle più ricorrenti tentazioni dei chimici industriali di tutto il mondo è stata, ad esempio, trasformare i cascami di legno senza valore in zucchero alimentare e in alcool. Operazione vantaggiosa: una materia prima abbondante e di scarso valore, due prodotti finiti di alto valore economico ed energetico. Un po' come trasformare il piombo in oro. Ma la reazione chimica di cellulosa e carbone di legna con acido solforico, che in teoria dovrebbe portare allo zucchero, è di complessa realizzazione industriale.

germania_petrolio_2g I chimici Willstatter e Zechmeister erano riusciti fin dal 1912 a «zuccherare» la cellulosa, ma in piccole quantità e solo in laboratorio. Carl Scholler riuscì infine ad ottenere industrialmente grandi quantità di alcool, lievito e tannino utilizzando i soli cascami del legno, con l'aggiunta di acidi diluiti in soluzioni zuccherine al quattro per cento. Somministrando un terreno di cultura di sali di potassio, azoto, magnesio e fosforo, i fermenti hanno modo di riprodursi, e in tal modo Scholler ottiene, da 100 chili di trucioli di legno, negli anni Trenta, ben 25 chili di lievito secco alimentare, ricchissimo di proteine (56% di «albumine», come le chiamavano allora). A Dassau nel 1936 viene costruita una fabbrica di alcool metilico (metanolo) che lavorando unicamente legno produce ben 50.000 ettolitri all'anno. Ma torniamo allo zucchero sintetico.

Già da tempo si era appurato che le barbabietole dolci contengono il 20-25% di zuccheri. In quegli anni, poi, si accerta che il legno comune, non considerando la lignina, contiene percentuali ancora più alte di carboidrati trasformabili in zucchero. In teoria la pasta cellulosa della quercia ne contiene il 61%, quella dei faggio il 62%, quella del pino il 63%, quella della betulla quasi il 67%. Ma le difficoltà tecniche d.i estrazione e separazione erano quasi insormontabili. Solo nel 1928, a Mannheim-Rheinau, in Germania, Friedrich Bergius riesce nel suo intento: farsi finanziare ed aprire una grande fabbrica di zucchero ottenuto dal legno. Uno dei sogni degli alchimisti medioevali si era finalmente realizzato.

Il tritume ligneo e la segatura sono condotti in giganteschi essiccatoi a gas, in modo da ridurre l'umidità allo 0,5 o al massimo all'1%, poi sono idrolizzati con acido cloridrico arricchito. Lo sciroppo di idrati di carbonio che si ottiene e però difficilmente separabile dall'acido. Il Bergius vi riesce impiegando come scambiatore di calore una miscela di idrocarburi ad alta temperatura che non si mescola né reagisce coll'acido, ma che al contrario ne favorisce la rapida evaporazione.

I due terzi della legna secca dei boschi potrebbero essere trasformati in prodotti energetici di importanza strategica: zucchero alimentare greggio (poi convertito in glucosio raffinato) e foraggio. Anche le patate in quegli anni vengono sempre più trasformate prima in fiocchi secchi a prova di conservazione e poi in zucchero di sintesi e in alcool. Nascono allora le battute popolari sullo «spirito di patate», forse un po' più insipido di quello d'uva o di mele. Ma nello stabilimento biochimico di Rheinau da segatura di legno e tuberi destinati a marcire si ottengono anche altri prodotti nobili, come proteine sintetiche, acido acetico ed altri derivati di buon valore economico.

Quando ancora la guerra è lontanissima, nel 1932, si perfeziona un motore a combustione per automobile capace di sostituire il menù a base di costosa benzina con uno di semplice legna. Due chili e mezzo di pezzetti di legno o di segatura grossa sostituiscono un buon litro di benzina. Il legno, bruciando, si trasforma in biossido di carbonio, che attraversando una brace si riduce a monossido. Nel frattempo lo stesso calore sviluppato scompone tutti i componenti del gas – acido acetico, catrame ecc. ‑ che danneggerebbero il motore. Il gas di legna viene mescolato all'aria, come si fa coi vapori di benzina, e il miscuglio gassoso si regola allo stesso modo con valvole a farfalla.

La seta artificiale aveva dato in passato gravi grattacapi ai suoi inventori. Estratta la cellulosa del legno e trasformata in nitrato di cellulosa, la si scioglieva in una soluzione di etere e alcool, facendola poi passare in filiere sottilissime di vetro dell'apertura di un decimo di millimetro. Il filato viscoso veniva poi indurito col calore. Ma quando, nel 1896, il conte Ilaire de Chardonnet, inventore di una di queste macchine, mise in commercio la sua «seta artificiale», successe il finimondo. Stretta parente dei fulmicotone, la seta Chardonnet si rivelò altamente infiammabile. Ci furono casi di eleganti signore della buona società trasformate in torce viventi dalla sigaretta accesa del marito. Queste drammatiche morti sulla «via dei progresso tecnologico» pesarono non poco sul destino del conte Chardonnet, che fallì dopo aver perso più di sei milioni di franchi d'allora e finì i suoi giorni in povertà.

Solo cinquant'anni fa il procedimento fu perfezionato e reso finalmente sicuro. La cellulosa dei legno veniva essiccata e imbevuta di lisciva di soda, e poi ridotta in una massa fibrosa dall'aspetto di segatura. Questa massa, mescolata con solfuro di carbonio dà lo xantogenato, che a sua volta sciolto in lisciva di soda diluita origina la viscosa, un liquido sciropposo che è filtrato e lasciato maturare per molti giorni prima di essere trafilato attraverso trafile di metallo.che contano da 50 a 800 fori. Poiché la viscosa non indurisce all'aria, come fa la seta al nitrato di Chardonnet, la si fa indurire in un bagno di sali. Nel 1935 si contava nel mondo una produzione industriale di un miliardo di libbre di seta ottenuta dalla legna. Loewenstein in Belgio e Gualino, il fondatore della Snia-Viscosa, in Italia, si dettero ad acquistare enormi quantitativi di legname in tutto il mondo.

Boschi interi furono trasformati in calze di seta da donna, in cravatte e luccicanti vestiti da ballo. Perfino il paese della seta naturale, il Giappone, nel 1935 produsse oltre 200 milioni di libbre di seta di cellulosa, che fu impiegata anche per sostituire le tele interne dei pneumatici. Nel 1936 la società Du Pont de Nemours fabbricò una fibra ancora più leggera: il ricercatore Ernest Baden-Berger era riuscito a modificare ancora la struttura chimica della seta di cellulosa e a produrre finalmente molecole molto più piccole di quelle naturali. In Italia, nel 1935, si contano già una trentina di stabilimenti che producono 32 milioni di chilogrammi di seta artificiale ottenuta da legno, con 14.000 filiere e 650.000 fusi di torcitura.

Anche la lana di pecora viene imitata con un certo successo. Nel novembre 1935 la Lega delle Nazioni discuteva ancora, riunita nella sede di Ginevra, la portata delle sanzioni economiche all'Italia («inique sanzioni» le chiamerà Mussolini), quando fu reso pubblico un nuovo processo tecnologico inventato dall'ingegner Ferretti che utilizzava la caseina del latte scremato per produrre una fibra tessile che aveva le medesime qualità termiche e la medesima resistenza alla trazione della lana di pecora. Da un ettolitro di latte magro si ottengono tre chili di caseina e quindi di «lanital» (come viene chiamata la nuova fibra). Dal gennaio 1936 la Snia-Viscosa produsse oltre 5000 chili di lanital al giorno e impiantò filiere capaci di produrne almeno 50.000 al giorno.

Come si fabbricava il lanital? Dalla caseina del latte si otteneva per reazione chimica il caseinato di sodio che veniva trafilato in filiere di vetro del diametro di 0,08-0,1 mm immerse in un bagno acido contenente acido solforico e solfato acido di sodio. I filati ottenuti sono poi trattati sotto pressione in autoclave con aldeide formica, lavate con fosfato sodico, essiccate, cardate e colorate. Il lanital aveva un aspetto «credibile» e buone proprietà termo-isolanti, ma aveva il difetto di essere fragile in condizioni di umidità.

Per ottenere una lana sintetica migliore si trattavano i filati in autoclave con sali di cromo, ottenendo lanital-cromaldeide molto più resistente, ma di un intenso color verde-azzurro difficilmente sbiancabile, utilizzabile perciò solo per tessuti di colori scuri.

Il lattice degli alberi della gomma, proprio in quegli anni, fu imitato alla perfezione, ed anzi «migliorato» nella resistenza meccanica e chimica, e in alcuni casi reso insolubile al passaggio di acidi e idrocarburi. Già all'inizio dei secolo si era scoperto che la molecola di caucciù non è che un prodotto polimerico dell’isoprene: cinque atomi di carbonio e otto di idrogeno. Ma la misteriosa incognita della polimerizzazione è scoperta solo negli anni Trenta grazie agli esperimenti del professor Svedberg a Uppsala e nella centrale della Dupont di Wilmington, nel 1936. 1 primi pneumatici per automobili di caucciù artificiale, il duprene, apparvero sul mercato nel 1934 negli Stati Uniti. E quando il dottor Wallace Hume Carothers, con buon senso della notizia, comunicò alla stampa che la nuova gomma sintetica «era fatta di acqua, calce e carbone», la meraviglia dell'opinione pubblica fu enorme.

Niente caucciù di metil isoprene, costoso e fragile derivato dell'acetone; niente più materie prime rare come l'alluminio e il mercurio: la nuova gomma di sintesi era prodotta a partire dal semplice ed economico carburo di calcio combinato con l'acqua, cioè dal gas acetilene. Molti catalizzatori favoriscono le combinazioni chimiche successive: acetilene più acido solforico, acetaldeide, aldolo più idrogeno, glicolato di butilene, infine il butadiene, la cosiddetta «buna» greggia. Quest'ultima è un prodotto affine all'isoprene, ma non identico. Dopotutto, disse un moralista, sempre meglio un caucciù di calce e carbone del «caucciù di sangue», com'era chiamata la gomma naturale raccolta manualmente a prezzo di sforzi incredibili e in condizioni inumane nelle piantagioni di hevea in Brasile, Liberia, Giava o Sumatra.

Si riusciva ad ottenere perfino la «carne tessile». Fibre tessili ricavate dai resti inutilizzati dei corpi degli animali (dal corno, dal rivestimento chitinoso degli insetti, dalle lische di pesce) erano ottenute sperimentalmente nei laboratori biochimici d'Europa e d'America, intorno agli anni Trenta. La vera e propria carne tessile, invece, era ottenuta dai muscoli del cavallo. Dapprima si estraevano con potenti solventi (tetracloruro di carbonio o un idrocarburo estratto dal petrolio) le sostanze albuminoidi facilmente solubili e putrescibili. Poi si riduceva il fascio muscolare in fibre lunghe da 3 a 8 cm che venivano tessute fino a formare un prodotto bio-medico di pronto impiego, il carnofil, usato sperimentalmente per scopi operatori come la ricostruzione di parti, come supporto ecc. In tal modo si poteva fare a meno di ricorrere all'importazione di budella di montone, che allora venivano usate allo stesso scopo.

La benzina sintetica, buona imitazione della benzina distillata dal petrolio naturale, fu un'idea fissa dei paesi europei privi di giacimenti petroliferi. In Europa, però, c'erano grandi quantità di carbone fossile. E proprio dalla lignite gli ingegneri chimici inventarono nel 1926 e perfezionarono nel 1935 un mirabolante sistema di produzione di benzina sintetica che avrebbe dovuto nelle loro intenzioni rendere l'Europa indipendente dagli approvvigionamenti americani, russi e arabi. L'impianto pilota fu costruito a Merseburg, in Germania centrale, e nel 1935 era in grado di produrre mille tonnellate di benzina sintetica al giorno. La lignite veniva prima depurata del gas, che veniva raccolto in grandi depositi, poi polverizzata, arricchita di olio minerale e di vari catalizzatori. La pasta ottenuta era riscaldata a 500°, posta sotto pressione a 200 atmosfere, fatta reagire chimicamente con idrogeno. Si otteneva così una sorta di petrolio greggio.

Dal 1936 si ottenne anche una miscela di carburanti leggeri fatta di ossido di carbonio e idrogeno ad alta pressione, dando origine a idrocarburi liquidi di pronto impiego energetico (sistema Bergius o sistema Fischer-Trops). Soltanto nel 1935 furono chiesti ben 700 brevetti per nuovi metodi di liquefazione del carbone. Pott e Broche inventarono in quegli anni un vantaggioso sistema di estrazione della benzina a pressione che utilizzava l'antracite. Il carbone granuloso era sciolto in fenolo di catrame e tetralina e trasformato in olii pesanti mediante riscaldamento e pressione graduali.

Perfino nel campo dell'alimentazione, cinquant'anni fa, la tecnologia ne faceva di cotte e di crude. «Diffidare dalle imitazioni» avvertivano le etichette di certi prodotti affermati; ma in realtà l'industria e l'artigianato dell'epoca erano in grado di imitare un po' tutto, dall' aceto di vino al miele d'api, dai liquori al caffè, al vino d'uva. Mentre le imitazioni del prodotto alimentare protetto da marchio e le sofisticazioni nascoste erano perseguite (le prime dai produttori privati colpiti, le seconde dallo Stato), i surrogati alimentari erano accolti con favore e spesso finivano per brillare di luce propria, continuando ad avere un mercato.

La piccola industria locale, cinquant'anni fa, ricavava l'aceto anche da miscugli di mosti di ripiego ottenuti dalla fermentazione zuccherina di uva secca e fichi secchi di scarto, carrube, barbabietole e frutta fresca da macero. Il tutto veniva innescato con lievito di birra e sottoposto poi a fermentazione acetica grazie ai batteri che Pasteur chiamò Mycoderma aceti (ma in realtà si tratta di di­verse specie) naturalmente presenti nel­l'aria oppure aggiunti in grande quantità (come le colonie della cosiddetta «ma­dre dell'aceto»). I sistemi che utilizzava­no alcool industriale diluito in acqua o grappe di vinaccia erano invece troppo costosi. La soluzione alcoolica al 10% era posta in grandi botti aperte e, dopo la acetificazione, colorata con caramello o con estratto di vinacce e aromatizzata con eteri. Di rado l'aceto era preparato a partire dal latticello di siero di latte, do­po averlo fatto bollire con carbonato di calcio precipitato per distruggere i fer­menti lattici e butirrici presenti e neutra­lizzare l'acido lattico. Si aggiungeva zuc­chero e lievito, e quando la fermentazio­ne alcoolica era terminata si faceva ini­ziare quella acetica. Più raro ancora l'u­so del semplice acido acetico glaciale diluito in acqua (60-100 g per litro) o vino, colorato e aromatizzato.

La birra era surrogata con analoghi prodotti ricavati da cereali e farinacei di scarso valore (scarti di riso o fecola di patate), ma la complessità del procedimento non rendeva conveniente la sostituzione dell'orzo maltato. Fu creata e diffusa negli anni Trenta in America la cosiddetta «birra di temperanza», dapprima pensata per quaccheri, musulmani e igienisti, poi indirizzata un po' a tutti come bevanda alternativa non alcoolica. Si scioglie in acqua un estratto sciropposo di malto d'orzo torrefatto, si aromatizza e insaporisce con estratto di fiori di luppolo e si rende più spumeggiante incorporando anidride carbonica. Questa birra, però, si altera con facilità se non viene pastorizzata. Negli anni Trenta, inoltre, chiunque poteva preparare all'istante una incredibile birra da tavola non alcoolica con una polverina in commercio contenente estratto di malto (1,5 g per litro d'acqua), estratto di fiori di luppolo (0,1 g), bicarbonato di sodio (4 g), acido tartarico (2,7 g).

Il burro di latte era surrogato da un miscuglio di sego bovino, strutto di maiale, burro di cocco, grasso di balena e margarine varie. Con un bagno di vapore surriscaldato a bassa pressione, il sego veniva sottoposto alla colatura per fusione, poi lasciato riposare in un recipiente riscaldato contenente acqua salata a 3° Bé. In tal modo si compiva una chiarificazione che migliorava l'aspetto del sego e lo rendeva anche più conservabile. Le margarine ebbero proprio in quegli anni la loro prima stagione d'oro. I grassi animali e vegetali incommestibili venivano idrogenati per renderli palatabili e commercialmente interessanti, corretti con tracce di latte inacidito, gelatina animale, caseina, sciroppo di glucosio, perché il surrogato schiumeggiasse e imbrunisse alla fiamma come il vero burro. Tra i vari grassi usati c'era il grasso d'ossa degli animali macellati (1,8-13% di grassi nella testa e nelle costole, il 20% nelle zampe), estratto per bollitura in acqua debolmente acidificata con acido solforico, oppure con solventi volatili.

Furono creati perfino dei grassi sintetici, dall'ossidazione degli idrocarburi di alcune frazioni di olii minerali, poi esterificati con glicerina, raffinati e incorporati nei surrogati del burro. Funghi come l' Endomyces vernalis e il Pennicillum javanicum furono impiegati per produrre grassi alimentari dagli zuccheri, dai carboidrati in genere e dai lieviti. Una ottima coltura sperimentale era costituita da glucosio, nitrato d'ammonio, solfato di magnesio, fosfato di potassio, più le spore dei funghi. In 12-15 giorni si ricavava un feltro miceliare molto spesso, da cui si otteneva per essiccamento ed estrazione con solventi anche il 35-40% di sostanze grasse. Ecco quindi fichi secchi, la melassa e gli scarti della frutta trasformati in burro.

Dalle imitazioni del cioccolato e del caffè sa tutto anche l'epoca moderna. Il primo era ed è surrogato da farina di polpa di carruba, grassi vegetali e pasta di nocciole (tipo «Nutella»); il secondo da cereali misti tostati, radici (bardana, cicoria radicchio, rape, barbabietole), frutti (fichi datteri, carrube, arachidi). Critica è però la temperatura di tostatura, dai 200° ai 250°C, valutata in modo ottimale volta per volta mediante campione. Ad aumentare il verismo si aggiungevano tannino, acido citrico e zucchero, più aromi sintetici come aldeide acetica, furano, metiletilcarbonolo ecc.

Per tacere dei vini di ciliegie nere, di barbabietole rosse e di arance (California e Florida), passando oltre al latte e al formaggio di soia ‑ oggi riscoperto dai naturisti ‑ alle salse e ai condimenti alternativi, perfino ai surrogati industriali delle uova, a base di ovoalbumina secca e pectina, gli anni Trenta arrivarono a creare surrogati della carne, sia sotto forma di concentrati di albumine, gelatine di tendini e ossa, siero di sangue, caseina di scarto, sia come estratti proteici dal lievito, lupino, favette, soia, erba medica, glutine di grano. Il professor Effront, ad esempio, creò un procedimento per ottenere un credibile «estratto di carne» dal comunissimo trifoglio finemente sminuzzato, usando come reagente base l'acido solforico, neutralizzando poi con carbonato di bario, filtrando ed eliminando il solfato di bario, concentrando il liquido a pressione ridotta, chiarificando e poi di nuovo concentrando sotto vuoto. Si otteneva un prodotto proteico che per aroma e gusto ricordava da vicino la carne arrostita.

IMMAGINI. 1. Il curioso ciclo della produzione del lanital a partire dalla caseina: chissà se potrebbe essere ripreso oggi, in tempi di sovrapproduzione di latte in Europa? 2. Una giubba per le truppe italiane in lanital. 3. Benzina sintetica (a sinistra, totalmente trasparente per assenza di zolfo) e benzina convenzionale. 4. Un libro di propaganda sulla presunta autosufficienza simil-petrolifera della Germania degli anni Trenta.

AGGIORNATO IL 27 OTTOBRE 2014