20 luglio 2010

MUSICA MODERNA. Se il pubblico tossisce, non è per il mal di gola...


LE MUSICHE “DIFFICILI”
QUALCHE VOLTA L’ARTE SCANDALIZZA

Non c’è bisogno di tirare in ballo Schoemberg, basta rifarsi alla “Sagra della primavera” di Strawinski, che all’inizio del secolo fece scandalo tanto tra il pubblico che tra la critica
Nico Valerio
Fiera Letteraria, 10 marzo 1974
Quante volte ci siamo chiesti come mal molte persone del pubblico non fanno che tossicchiare nervosamente – anche nella bel­la stagione – durante i concerti di musica contemporanea? Naturalmente non è cosa che riguarda l'ufficiale sanitario più del musico­logo, del critico militante o dello stesso com­positore. E' un modo obliquo, e oltretutto ca­cofonico, con cui il nostro inconscio protesta il proprio smarrimento o il disappunto per la scarsa comprensione dell'opera che si sta suo­nando sulla pedana. Non sono pochi comun­que – alibi sanitari a parte – quelli che alle nuove espressioni della musica, ai concerti spe­rimentali o delle « nuove tendenze » (ma per­fino di fronte a tutta la musica moderna, degli ultimi sessant'anni) storcono visibilmente la bacca. Perché? E perché la stessa tenace in­comprensione non si manifesta per esempio per le opere d'arte figurativa o di architettura, mentre si verifica per il cinema, come hanno provato recenti fatti d'intolleranza per alcuni film indigesti o provocatori?
La spiegazione fisiologica o psichica da so­la non basta. Certo, c'è di mezzo quella sorta di « ineluttabilità » e necessità così tipica del­la percezione sonora o visiva. Non si può « non ascoltare » durante un concerto, o al cinema « non vedere e sentire » immagini e suoni che rimbalzano da uno schermo grande quanto tut­to il campo visivo. Ma non è salo questo. Ouan­do non è proprio possibile, per non coprirsi di ridicolo, tapparsi occhi e orecchi, ecco che motivazioni d'oggi genere, pregiudizi e « idee stereotipe » vengono in nostro soccorso of­frendoci la ciambella di salvataggio, razionale e ideologica, che giustifica pietosamente la nostra incomprensione. Ecco fatto: « l'opera non è arte », o addirittura « non è musica. quindi io non sono tenuto a capirla ».

Di queste motivazioni che stanno alla base della scarsa comprensione ed assimilazione della nuova musica hanno finito per parlare musicologi e compositori, riuniti in un recente incontro-dibattito nella « Sala rossa » di Pa­lazzo Barberinì, sul tema – in verità molto più generale – del « Nuovo linguaggio musicale », dei suoi rapporti coi pubblico (ma « esiste un solo pubblico o ci sono diversi pubblici? »), con gli altri campi dell'arte con­temporanea e con la cultura di oggi. Un tema senza dubbio stimolante, ma per l'assoluta genericità ed imprecisione della definizione di partenza anche ricco di significati equivoci. Quel « linguaggio musicale », innanzitutto. Se una cosa, finalmente (e assai faticosamente) ha messo d'accordo a suo temo i musico­logi, è che la musica non è un linguaggio, e anche se sì tratta di un organico e autosuf­ficiente « sistema di segni » è un sistema privo di valori semiologici di tipo linguistico. A voler utilizzare termini d'uso familiare e corrente tanto valeva parlare più semplice­mente di « musica d'oggi », come ha ben mes­so in rilievo il maestro Boris Porena, che par­tecipava all'incontro insieme con Goffredo Pe­trassì, Roman Vlad e Virgilio Mortori.

E poi quel « nuovo linguaggio ». S’intende, la musica d'oggi è nuova; ma in rapporto con la musica precedente non è certo « più nuo­va » delle musiche dei secoli passati, almeno non tanto da giustificare una totale chiusura nel pubblico. In fondo, ha valuto dire Porena nel suo lucido intervento, ogni espressione musicale è nuovissima, addirittura inaudita e scandalosa, quando vede la luce. Non c'è bisogno di tirare in ballo Schoemberg o Nono, basta ricordare « Le sacre du printemps » di Stravinski, che scandalizzò pubblico e critica parigini all'inizio del secolo, e le stesse ope­re di Beethoven e di tanti altri, per ridimen­sionare a fatto normale e fisiologico l'opposi­zione del pubblico alle novità odierne. Sem­mai, come ha notato Virgilio Mortari, ci si potrebbe domandare perché l'attuale « incom­prensione » duri molto più a lungo di quelle precedenti, ma è facile rispondere che la no­stra prospettiva, di noi contemporanei cioè, è falsata perché troppo personalizzata.


Sia Petrassi che Vlad hanno cercato di get­tare « acqua sul fuoco » della presunta incom­prensione del pubblico. Il primo ottimistica­mente ha rilevato che per ogni nuova espres­sione musicale esiste sempre una fetta, non tanto esigua poi, di pubblico disposto a se­guirla: tutto dipende dalla capacità dei nuovi mezzi di comunicazione (i cosiddetti « mass media ») dì far fronte con elasticità ai sem­pre nuovi rapporti tra nuove forme sonore e pubblico. Ouando un difetto di comunicazione non esiste, allora ci può essere dato di assi­stere a spettacoli meravigliosi ed esaltanti. come, per esempio, platee libere ma ordinate di migliaia di giovani che si cibano per giorni e giorni (e per ventiquattr'ore al giorno) di musica moderna e contemporanea, come è accaduto recentemente in alcuni festíval esti­vi in Francia e negli Stati Uniti. Le nuove for­me musicali diventano cioè beni di consumo. da usare così come sono e da gettare via dopo l'uso, com'è nello stile di queste grandiose adunate di giovani; e senza purtroppo che se ne possa fare un calcolo quantitativo, visto che si tratta di fenomeni sociologici e di co­stume che sfuggono alle rilevazioni economiche e alle statistiche sui diritti d'autore. D'altra parte, se esiste un pubblico per ogni espressione musicale. è anche vero che le varie musiche sono uscite ormai dal ri­stretto àmbito della propria cultura origina­ria e vanno via via universalizzandosi, come ha fatto notare Roman Vlad. La stessa ado­zione del « sistema temperato », con l'inge­gnosa ma innaturale divisione in dodici va­lori, determinò secoli fa il « boom » della cul­tura musicale europea, la sua universalizza­zione e accettazione in tutto il mondo cono­sciuto, ma poneva anche, in fondo, le pre­messe logiche dello stesso sistema dodeca­fonico.

Oggi poi, grazie ad altri sistemi di diffu­sione della cultura, il pubblico – specie quel­lo più giovane – è abituato a nuove sensibi­lità musicalì, alla riscoperta degli elementi ritmici, alle espressioni folkloriche, ai timbri nuovi ed esotici, ai diversi valori espressivi delle « altre » culture (quella negro-americana o quella indiana, per esempio), e non si me­raviglia più dì nulla: capacissimo di ascoltare mezz'ora di jazz e poi un'ora di Bach, un brano di Schoemberg e un'opera di sitar indiano e, se ne ha ancora voglia, ancora un po' di Re­spighi e di musica elettronica. Un eclettismo ed una elasticità disarmanti. Del resto è stata la musica europea contemporanea a dare l’esempio, sempre più aperta verso le altre culture, sempre più spregiudicata nell'utiliz­zare nuove scoperte tecnologiche (per esem­pio elettroniche), come già ebbe ad antici­pare il Busoni.
Tempi duri allora per un censore catoniano che prenda per un pot-pourri di bassa cucina ìl sincretìsmo musicale contemporaneo. Do­vrà rileggersi la frase di Schoemberg (ma prima di lui almeno mille artisti l'avevano già detta) secondo cui « l'artista non cerca la bel­lezza ma la verità », un obiettivo raggiungi­bile sodo a prezzo di una dura ricerca, di spe­rimentazioni poco gratificanti, soprattutto di « urgenze e necessità interiori », come ha ri­cordato il Vlad.

E se poi in questa ricerca senza fine il musicista dovesse girare attorno al confine, alla definizione stessa di musica, niente di grave: non sarebbe la prima volta che una forma sonora recisamente definita « non mu­sica » o « accozzaglia di rumori » (e l'accusa non tocca solo le più recenti avanguardie, ma ha bollato a suo tempo autori antichi. tra i migliori) si riveli col tempo perfettamente inserita negli schemi convenzionali dell'arte dei suoni (e dei rumori). Schemi, appunto. convenzionali. Perché tutto è relativo anche in questo campo, che qualcuno ha detto fondato su verità certe come rapporti matematici men­tre sappiamo che poggia sulle sabbie mobili, così mobili che muta – si può dire anno per anno – la definizione stessa di musica. lo stesso concetto di « pubblico » (perché poi deve necessariamente esistere un pubblico: in certe tribù africane compositori esecutori e ascoltatori non sono forse le stesse perso­ne?) e l'unico valore certo resta forse la per­sona del musicista, l'uomo.

IMMAGINI. 1. Crazy fingers - Piano Keyboard (S. Duda). 2. Spartito di J. Stump. 3. Composizione X, 1939 (V. Kandiski).