21 febbraio 2006

AUTO FAVOLOSE. Quattroruote tutta plastica? No, meglio un’auto antica.

Mg foto frontale (parabr.poco vis.)(sett.2005)(piccola s.targa)
Confesso: non ho mai amato troppo l'automobile. Intendo dire come abituale, velocissimo, moderno, nevrotico mezzo di trasporto. Del resto, a che pro correre, per risparmiare cinque minuti a rischio della vita, se poi nelle code del traffico si perdono mezze ore, e soprattutto, una volta a casa o in ufficio, si vive “lentamente”, troppo lentamente, sprecando ore inutili davanti alla tv, al computer, o in anticamere e sale d’aspetto, e comunque ingrassando – statici e immobili – a tavola o in poltrona? Conosco gente che si precipita in un posto per… non far nulla. Bisogna essere marziani per avere il diritto di prenderli in giro? O si è veloci o si è lenti, dico io; ma sempre e in tutto. Peggio ancora, poi, se l’auto diventa status symbol, prolungamento ridicolo della propria (carente) personalità.
      Però mi piace la bellezza e la testimonianza storica di prodotti inimitabili che hanno fatto la Storia dell’intelligenza umana (“archeologia industriale” o "arte industriale"?), talvolta veri e propri capolavori. A cui aggiungo la soddisfazione di far funzionare ancor oggi, a costi ormai ammortizzati da tempo, una macchina antica (“risparmio d’energia”), come qualsiasi oggetto, apparecchio o strumento d’epoca, dal rasoio di sicurezza apribile in acciaio inossidabile con lamette intercambiabili (degli anni ‘40), all’amplificatore a 10 valvole Fischer (anni ‘60), alla borghese penna stilografica Omas Lucens a stantuffo (anni ‘30), alla operaia penna stilografica Punto Rosso (anni ‘40), alla “matita automatica” da taschino (anni ‘50), all’orologio meccanico (anni ‘40). Tutti strumenti nel loro genere perfetti, ancora concorrenziali e spesso di gran lunga migliori per qualche aspetto degli equivalenti moderni. Basti pensare che un banale ed economico (5000 lire a Porta Portese) orologio meccanico russo Raketa (anni ‘70) perde o guadagna solo 10 secondi al giorno rispetto a un moderno orologio al quarzo. Del resto l’orologio meccanico fin dagli anni ‘50 è la macchina più piccola e stupefacente, ormai perfetta, ancor oggi assolutamente competitiva. Che senso ha la precisione digitale al centesimo di secondo, se poi arriviamo all’appuntamento con un quarto d’ora di ritardo?
Mg foto cruscotto e parabr.centrale (sett.2005) corretto (picc.)      E’, in altre parole, una sfida al Tempo, quella dell’oggetto antico che funziona. Perché il progresso, perfino quello tecnologico, è vero solo fino a prova contraria, cioè con parecchie eccezioni. Che “progresso” è il computer di bordo se una scheda elettronica va in corto circuito? L’antica auto tutta meccanica, invece, parte al primo giro di chiavetta, sempre, anche al gelo. E, anzi, a proposito delle produzioni moderne, si parla ormai di decadenza del lavoro ben fatto e della qualità intrinseca dei materiali, oltre alla truffa della rapida obsolescenza e della non riparabilità. La “obsolescenza programmata”, cioè la voluta deperibilità a tempo prevista dai progettisti per i più vari prodotti, dalla lampadina alla lavatrice, dalla stampante dei computer all’automobile moderna, per poter vendere di più (v. video nel colonnino), non riguardava le automobili antiche, tra cui la MG, tutte costruite quando il mercato era ben lungi dall’essere saturo, e quindi fatte per durare a lungo, e per poter facilmente essere riparate.
      In cambio, le deperibili auto di oggi sono proposte agli ingenui come “a basso consumo”, come le lampadine o le lavatrici. Certo, ma se si calcola il prezzo d’acquisto di 2, 4 o 6 veicoli (o lampadine, stampanti,  tastiere, lavatrici ecc.) al posto di 1, le auto moderne sono costosissime, mentre le auto d’epoca in quanto eterne e riparabili (e dal costo già ammortizzato) sono alla lunga più economiche, paradossalmente.
MG foto totale laterale sin. dall'alto (sett.2005)(piccola)
      Senza contare che le auto d'epoca oggi sono infinitamente più individuali, spesso esteticamente raffinate, comunque istruttive. Ma sì, perché nate come “inutili” mezzi da diporto e ostentazione (la retorica ipocrita dell’auto “sportiva”, in realtà da “rimorchio”, o di status-rappresentanza), le auto d’epoca sono diventate oggi più “utili”, in quanto sono Cultura, delle automobili moderne che non valgono nulla né come materiali né come Cultura. Auto oggi sbandierate come “strumenti di lavoro”, che invece sono causa di perdita di tempo, sia di lavoro che di svago, e che sopravvivono solo grazie alle mancate politiche dei trasporti sociali da parte degli Stati, che si occupano di tutto tranne che degli spostamenti e della razionalizzazione dei luoghi di lavoro. Auto moderne che con i loro materiali vili, plastiche da quattro soldi, finto-cromo, finto-legno e finta-pelle, circuiti stampati non riparabili, computer instabili, rozzi incastri al posto delle viti, prive di personalità, tutte banalmente omologate e piattamente uniformi nella linea stilistica (con la scusa di una “aerodinamicità” che in pratica è vietato sperimentare, a causa dei giusti limiti di velocità), sono state costruite con l’inganno, cioè per durare solo poco tempo (magari con una scheda elettronica o il computer di bordo che dura un certo numero di ore), prodotte e vendute solo per consumismo, capaci di generare omologazione e schiavitù psico-fisica (spesso vi si resta letteralmente prigionieri) sia tra i produttori che tra gli utenti. E con tutto ciò vengono fatte pagare a caro prezzo. Il loro valore, poi, cala vertiginosamente ogni anno, mentre quello delle auto antiche è stabile, quando non in aumento.
MG foto tre-quarti anteriore destro (sett.2005)(piccola)
      S’intende che come naturista – che è molto più di ambientalista – preferisco ben altri mezzi di trasporto collettivo o individuale, come treno, nave, bicicletta, barca, carrozza a cavallo (senza far male al cavallo, però), e soprattutto le mie gambe, perché mi è sempre piaciuto molto camminare. Se potessi, privo come sono di snobismo, con grande naturalezza mi muoverei solo a cavallo, in carrozza e in barca, oltre che a piedi. Uso il più possibile la nave e il treno.
      L'aereo mi è capitato di usarlo di rado. Ma non certo per paura. A diciotto anni, prima ancora di prendere la patente per auto, ho addirittura pilotato il "macchino", cioè il piccolo aereo Macchi MB-308 biposto (vedi foto, ma il mio era bianco), e anche un aliante di cui non ricordo il modello. In tutto un'ora e mezza di volo, a più riprese, dall'aeroporto di Gorizia, dove seguivo un corso dell'Aeronautica Militare. C'era l'istruttore, ma - sia chiaro - alla cloche c'ero io. Anzi, ricordo benissimo che l'istruttore se la faceva sotto, e durante una mia picchiata troppo decisa puntando su un albero, urlò: “Io ho moglie e figli!”, e rialzò con una acrobatica cabrata l'apparecchio. Atterrato mi fece una ramanzina. Devo dire che ho spesso pensato a quella picchiata cinematografica da Frecce volanti. Ma, dico io, se hai paura non fare l'istruttore di volo... Comunque non presi il brevetto solo perché costava troppo mantenerlo.
      Ma oltre all’amore per la cultura, l'arte e la storia, ho sempre avuto la tendenza alla manualità. E perciò da adolescente avevo anche l'hobby del modellismo (treni, mezzi militari e auto del passato). E, visto che va spesso smontata e rimontata, un'auto antica è non solo cultura, cioè testimonianza d'un sapere e d'una tecnologia conservati con abilità e intelligenza fino a noi, ma anche un… “modello in scala 1:1” da far funzionare, che bisogna aggiustare, restaurare, verniciare con le nostre mani. Così, la mia coscienza di super-naturista era pulita: un'auto antica, dopotutto, è anche risparmio di materie prime e lavoro, quindi conservazione di energia e tecnologia. E, grazie al "riuso", principio base degli Antichi (e oggi di noi naturisti e ambientalisti) potrebbe essere anche un piccolo freno al consumismo insensato. Così, odiando le moderne auto, “servili” in quanto servono a qualcosa di materiale come gli schiavi, decisi che avrei acquistato e posseduto solo un'auto antica, nata non per servire ma per condurre, sia pure un gioco, come se fosse  un’auto normale, moderna, da usare simbolicamente e a scopo educativo (per gli altri) un poco ogni giorno. Un giocattolo culturale e anti-consumistico, ma anche un esempio di conservazione dei beni e una possibile alternativa utopistica.
Aereo Macchi MB-308 (fine anni 40)
      Di recente, un trafiletto in cronaca romana del Corriere della Sera (v. in basso) mi ha fatto trasalire riportandomi a tanti anni fa: evoca la fondazione a Roma dell'MG Car Club d'Italia. Ero molto giovane e, sia pure di malavoglia – i club mi annoiano e non avevo tempo – mi ritrovai ad esserne, stranamente, tra i fondatori. Trascinato dalle insistenze dell'amico Paolo Bordini, genio delle auto d'epoca, specialmente inglesi, e grande conoscitore, bullone dopo bullone, delle MG in particolare (di recente ha comperato in Inghilterra anche una rara MG-PB). Avevo acquistato una MG-TC dopo che era fallito il mio tentativo di avere una rara Lancia Augusta spider, per la mia tracotanza di giovane inesperto (chiedere con insistenza al vecchio proprietario di un'auto rara "garanzie" sulla ruggine sotto la carrozzeria e il telaio è da cretini, e giustamente fui mandato a quel paese già alla prima telefonata). Bordini per consolarmi mi consigliò l'alternativa della MG spider modello TC. "E' più o meno simile come forma", disse semplificando ad usum Delphini quando gli spiegai che volevo un'auto degli anni Trenta o in stile anni Trenta.
      In men che non si dica – altri tempi – trovai in vendita sugli annunci del Messaggero la MG-TC di Renato Greco, allora famosissimo ballerino e coreografo della Rai-Tv (Canzonissima), che usai per anni così com’era, compresi improbabili paraurti di acciaio, inesistenti sull’auto originale, oltretutto inefficaci perché montati su staffe debolissime che tutt’al più potevano prevenire i graffi da parcheggio, non altro. Ancora oggi l’ormai ottuagenario amico jazzista Carletto Loffredo, che ha avuto una MG-TC e conosce bene le auto antiche, mi prende in giro per quei ridicoli paraurti. Parcheggiata all’aperto sotto casa ed esposta alle intemperie (ma partiva già allora al primo giro di chiavetta, e la usavo tutti i giorni) la povera spider si rovinava giorno dopo giorno a partire dalla carrozzeria (cofano). Confesso che ero diventato un po’ la favola del quartiere: «Ah, è tua quella bellissima macchina abbandonata e arrugginita? Ma perché non la restauri?». Un bel mattino trovai un biglietto che cambiò insieme la vita dell’auto e il mio conto in banca: «Si vergogni – scriveva un passante esteta e moralista – lei non è degno di possedere questo gioiello!».
      Colpito nel mio amor proprio, consapevole che chi possiede qualcosa che è patrimonio tecnologico o artistico comune deve impegnarsi nella sua manutenzione e anche renderne conto alla società, ma convinto anche che un’auto antica esteticamente in ordine sarebbe stata meglio accettata dai pigri meccanici romani (che come le donne giudicano in base all’esteriorità), mi accinsi finalmente al restauro cominciando da “ciò che si vede”  (carrozzeria, cromature, cruscotto, tappezzeria e capote), e poi finalmente bene accolto dai riparatori grazie all’abito buono, rifacendo anche freni, carburatori, radiatore e impianto elettrico.
Il cruscotto lo realizzai totalmente io stesso, forte delle mie esperienze di modellista e di dilettante costruttore di radio, dalla parte elettrica alla revisione degli strumenti (tranne l’amperometro che mancava della lancetta, restaurato in UK), dalla scelta della radica grezza di acero presso il grossista di legnami Borzelli fino al rafforzamento del volante che ormai si sbriciolava (con resine epossidiche trasparenti a due componenti). Ma il vecchio ebanista in pensione incaricato dell’impiallacciatura della radica (incollaggio con tradizionale colla cervione) mi consegnò un cruscotto troppo lucido e d’un colore troppo chiaro. Lasciai, sia pur accorciandola, la comoda manopola di sicurezza per il passeggero (“a tubo cromato da bagno”) che avevo trovato, rifiutandomi di mettere quella originale ma scomodissima “a lama di coltello”. Altra mia libertà nel restauro fu la sostituzione delle due orribili luci da cruscotto in alluminio con quelle a conchiglia e cromate della MG-A. Inoltre, la plancia centrale di metallo con l’avviamento e i comandi principali, che avevo trovato interamente cromata, la feci ricromare tutta anziché farla verniciare di nero opaco al centro come pretendeva l’originale. E infine lasciai i due magnifici fanali non originali perché carenati, cioè allungati in modo aerodinamico, che avevo trovato sull’auto: cosa ideale sul piano estetico per un’auto stretta e lunga, ma non su quello storico-filologico (sono anni ‘40). Non ci pensai minimamente, con quello che costano, a sostituirli coi corti fanali originali (anni ‘30). Fatto sta che l’amico Bordini parlò di "over-restoring", cioè restauro eccessivo.
      Ma è chiaro che con queste piccole modifiche estetiche realizzate nel corso dei decenni da tutti e tre i successivi proprietari italiani, me compreso, la spider è più bella. L’auto è visibile qui sopra (frontale, cruscotto e tre-quarti destro), e non ci vuole un esteta per rendersi conto che, neutralizzati tutti i trucchi degli inglesi per imbruttirla, è molto più soddisfacente. Anzi, mi scuso per la volgarità dei grossi fanali anti-nebbia, per di più gialli, che non c’entrano niente; ma li ho ereditati dal precedente proprietario. Dovrebbe essercene solo uno e più piccolo, cromato e con vetro bianco, in coppia con la tromba del clacson. Ma io per umanistico amore della simmetria vorrei mettere due faretti uguali, piccoli e di vetro bianco, che però non riesco a reperire a prezzi ragionevoli. Questa auto è anche oggetto di un altro articolo. Ma torniamo alla storia del Mg Car Club in Italia.
      Paolo Bordini, galvanizzato dalla lettura della rivista dell’Mg Car Club of England Safety Fast, decise da solo, un bel giorno del 1972, di costituire il club delle MG anche in Italia. Ci consultammo. Voleva chiamarlo MG Car Club Italiano, ma io buon titolista suggerii il più autorevole “MG Car Club d’Italia”. Lui fu presidente, io segretario, più alcuni amici dotati di modelli diversi.  La TC di Paolo, che aveva l’albero a camme nuovo e per di più sportivo, “stage 2” (lui si scusò: «E’ l’unico che ho trovato in Inghilterra…»), si rivelava più scattante e veloce della mia quando facevamo a gara tra gli stretti vicoli di Roma (ne ricordo una in via della Lungara, a costo di essere immediatamente trasferiti nell’adiacente carcere Regina Coeli…). Ma io, refrattario ai club, mi stancai dopo alcuni mesi. L'associazionismo, in generale, per me è sempre stato noioso, perché in Italia le cariche, la lotta per il potere, oppure le abbuffate delle cene sociali, finiscono sempre per prevalere sullo scopo societario.
      L’MG Car Club d’Italia ebbe questa genesi. Il 17 settembre 1972 Bordini inviò una lettera alla casa madre inglese, l’MG Car Club of England Ltd di Abingdon, chiedendo permesso e credenziali (tra cui la riproducibilità del logo dell’Ottagono, marchio storico della MG) per aprire un club affiliato in Italia. Gli inglesi risposero il 13 ottobre scusandosi per il ritardo e dando il placet. L’Assemblea di fondazione si tenne a Roma, nella casa dei genitori del socio Ferrucci sulla via Olimpica, il pomeriggio del 10 marzo 1973. Ne risultarono soci fondatori effettivi, fisicamente presenti, Paolo Bordini, presidente, Fabrizio Castellani vice-presidente, Nico Valerio segretario, Andrea Ferrucci tesoriere, Aldo Bontemps consigliere, Walter Nazzi consigliere. Bordini aveva ricevuto la delega per rappresentare altri soci, come Adriano Amidei, non presenti e che nella maggior parte dei casi non si fecero più vedere. La casa madre inglese ratificò con lettera del 15 marzo 1973 l’avvenuta fondazione e costituzione dell’MG Car Club d’Italia.
      Eravamo tutti giovani o giovanissimi. La cena inaugurale si tenne settimane dopo, non a piazza Navona come dice il sito ufficiale MG Car Club d’Italia, ma a piazza della Quercia (dietro piazza Farnese), nella trattoria proprio accanto alla quercia, di lato rispetto alla bellissima facciata del palazzo del Consiglio di Stato. E, al solito in Italia, se eravamo pochi alla fondazione, alla cena eravamo tanti! Temperatura mite, serata bellissima e tersa: si cenò in una lunga tavolata all’aperto, con le auto MG accanto. Un lusso triplo per dei giovani (cenare in Centro, non in pizzeria ma in una vera trattoria tipica, a prezzi abbordabili, e tenere l’auto al guinzaglio) oggi irripetibile.
      Cominciammo anche a fare propaganda, con la carta intestata da me realizzata e fatta stampare in una tipografia di Ponte Milvio (ho ancora il cliché tipografico originale inciso nello zinco e montato su legno). Quando si trovava in giro una MG parcheggiata si infilava sotto il tergicristallo il nostro biglietto. Fu così che nei mesi successivi trovammo altre MG e quindi altri soci, tra cui la TD avorio di Fabio Filippello, funzionario della FAO, che sostituì alla segreteria alcuni mesi dopo la fondazione lo svogliato Nico Valerio. Il nuovo segretario farà carriera diventando decenni dopo, conclusa la lunga e attivissima presidenza di Gianfranco Lami (1983-1992) e quella breve di Fulvio Beltrami, un attivo e appassionato presidente del Club.
      Però che bei tempi, quelli. Ricordo che lasciavo ovunque per intere giornate l'auto scoperta, con gli sportellini privi di serratura che anche un bambino avrebbe scavalcato, e senza alcun antifurto, e la trovavo ancora lì. Anzi, talvolta con qualcosa in più. Una volta sull’auto parcheggiata in strada sotto casa trovai un bigliettino d'una donna misteriosa ("Hallo, I like it, please telephone..."), che scoprii poi essere un’altissima mannequin in trasferta per una sfilata al vicino hotel Hilton. Un’altra volta scendendo da un ufficio del palazzo delle Generali e della Confindustria in piazza Venezia trovai nella spider, quel giorno coperta, una giovane donna tedesca dalla grande chioma bionda. Avevamo parlato a una festa e l’unico modo per ritrovarmi, disse, era quello di aspettarmi nella spider. Altro che snob, era una strana “spider democratica”, sempre aperta, dove tutti potevano entrare, dal bambino che gioca al pilota alla sorella maggiore del bambino… A proposito, avevo l’ardire di lasciare, unico mortale (neanche Agnelli lo faceva), l’auto parcheggiata sul passo carrabile della Confindustria. Senza raccomandazioni e senza bugie, ma solo grazie all’equivoco sul mio cognome. Seppi anni dopo, infatti, che il severissimo portiere non aveva mai osato farmi sloggiare, perché la mia faccia tosta gli appariva una prova evidente che dovevo essere un parente del potente industriale ing.Valerio, temutissimo in quell’ufficio. Che tempi!
      Anche quando mi assentavo per un mese di vacanza estiva lasciavo la MG parcheggiata sotto casa con la capote chiusa, e basta. E a Roma c'era sempre posto per parcheggiare, gratis, ovunque, anche in pieno centro. La metropolitana, che porta tutti in Centro, era di là da venire. Perciò non c'erano le folle di oggi, e circolavano meno auto. Le strade del Centro storico di Roma, al confronto di oggi, erano vuote. Finché l'assessore Nicolini impose la fermata della metropolitana a Piazza di Spagna, fatta apposta – dicevo io – per  permettere di fare il meridionale "struscio" voyeristico in Centro a chi abitava all'Appio-Tuscolano. Come a dire, non certo la Cultura (che non importa a nessuno) né le decisioni economiche e politiche, ma lo shopping, la curiosità morbosa verso i Vip, l’adorazione della Marca famosa e il consumismo, questi sì, devono essere “valori” alla portata di tutti. E’ questa la democrazia? Poi, a ridurre ancora più gli spazi liberi, vennero le isole pedonali (bene) e la stupida mania – da cafoni arricchiti e pigri, quindi molto italiana – dell'automobile come una sorta di “diritto assoluto” del cittadino sancito dalla Costituzione e che ci accompagna “dalla culla alla bara” (male). Anzi, ora nelle strettissime stradine del Centro i tanti cretini ricchi (perché dovrebbero esserlo solo i poveri?) provano il gusto d’un ulteriore esibizionismo, quello dei fuoristrada da via del Corso, dei patrol da deserto di piazza del Popolo, dei Suv da guerra in Irak ai Parioli.
      Fatto sta che con naturalezza, senza il minimo esibizionismo, e con poca o nulla curiosità tra i romani e i pochi turisti italiani (era l’epoca felice precedente a papa Wojtyla e alle Notti Bianche), mi fermavo parcheggiando regolarmente lungo il marciapiedi semi-sgombro di Piazza di Spagna – e trovavo sempre posto – per comperare l’introvabile Le Monde del venerdi col supplemento Le Monde des Livres che mi serviva per lavoro, alla bottega del giornalaio che esisteva allora sul lato della piazza in comune con via del Babuino. 
      Gustavo quelle libertà con l’intensità dei piaceri effimeri, come se fossero “gli ultimi giorni di Pompei”, occasioni che sapevo bene essere destinate prima o poi a finire. Eppure, visto con gli occhi di oggi, anche solo quel poter parcheggiare ovunque e senza timore che ti rubassero l’auto (allora le auto d’epoca erano fuori mercato e non interessavano nessuno, neanche i ladri), può sembrare un privilegio, una piccola ingiustizia sociale. Ma non lo era: c’era spazio dappertutto, anche in Centro, c’era meno consumismo stupido nella gente, meno “effetto copia”, meno furbizia, meno regolamenti e divieti inutili, quindi più libertà. Insomma, non c’era nessun altro, tranne noi pochissimi, che volesse fare le stesse cose, ovvero andarsene in giro in modo rilassato come negli anni Venti o Trenta a bordo di auto antiche vivendo la normale vita di tutti i giorni. Altro che oggi, in pieno consumismo da finte auto antiche – in realtà solo “vecchie” – quando perfino Fiat 500, maggiolino Volkswagen e macchine piene di plastica fatte in grande serie sono considerate “auto d’epoca”. Anni che ricordo, anche per tanti altri motivi meno futili, come una lunga Belle Epoque, una piccola "età dell'oro": gli avventurosi e ormai mitici anni Settanta.

Ritaglio: AUTO STORICHE E RADUNI
La «dependance romana» del mitico Morris Garage. Nel 1913 William Morris ex meccanico di biciclette realizzò il suo sogno: diventare costruttore di automobili. Nel suo «garage» a Cowley, cittadina inglese vicino Oxford, costruì i suoi primi due modelli. Con una fantasia tipicamente britannica le due vetture presero il nome di «Cowley» e «Oxford». Nel 1925 le MG debuttarono nel mondo delle corse. Tazio Nuvolari nel 1933 a bordo di una «Magnette K3» vinse il leggendario Tourist Trophy. A Roma, nel periodo della Dolce Vita, furoreggiava la MG A, una grintosa spider con al volante molti giovani appartenenti alla ricca borghesia romana. E proprio nella Capitale dal 1973 è attivo l'MG Car Club d' Italia. Presieduto da Fabio Filippello, il club, che associa oltre 350 appassionati della più celebre «convertibile» inglese, opera su licenza dell' MG Car Club Ltd di Abingdon fondato in Inghilterra nel 1930. L' associazione romana organizza ogni anno alcune manifestazioni riservate alle MG d'epoca. Tra i raduni più importanti, l'MG Winter Meeting, il May Flowers Run ed il Trofeo Settecolli. Nell'ambito del club è stato costituito il Registro italiano MG. Aderire all'elenco storico [ma non al Club] delle automobili di William Morris è gratuito (Francesco Arcieri, Corriere della Sera, Cronaca di Roma, 19 febbraio 2006).


IMMAGINI. 1-2-3-4. La spider MG-TC (frontale, cruscotto, laterale sinistro e tre-quarti destro). 5. Il piccolo aereo Macchi MB-308 biposto, detto il “macchino”.

AGGIORNATO IL 13 FEBBRAIO 2017

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1 Comments:

Anonymous Ing. Anders said...

Che bella rievocazione! Fa venire voglia sia di avere un'auto antica, sia di usarla... qualche decennio fa...:-) Perché oggi, col traffico che c'è...

5 maggio 2013 alle ore 02:27  

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