11 ottobre 2013

ALBERI IN CITTÀ. Abeti, palme e tuje di borgata: così piace al rag. Fantozzi.

Alberi esotici in estrema periferia di Roma Google Maps Arrivi bel bello nel fine settimana in uno qualunque dei tanti stupendi paesini italiani, molti dei quali immersi nel verde della Natura più rigogliosa. Ed ecco che, di solito in periferia ma talvolta perfino in pieno centro storico, accanto al distributore di benzina, nel parco dei giochi, nel giardino della scuola elementare, davanti al supermercato o nel cortiletto vezzoso (con o senza gli gnomi di Biancaneve, ma questo è un altro discorso), ti trovi di fronte a un altissimo abete del Canada o addirittura a un robusto cedro del Libano dai grossi rami orizzontali che si protendono avidi di spazio tutt’intorno. Se poi il paesino gode d’un clima temperato o caldo, come a Sud, è immancabile la palma del deserto (sempreché nella “Villa Comunale” o nel giardino privato ci sia spazio). Ovunque è così in Italia, in villaggi e grandi città, e non va diversamente all’estero.
      Solo che da noi il Kitsch dell’albero esotico, piantato non per amore degli alberi o della Natura ma per “far scena”, stride di più. L’Italia ha oltre la metà (6000 circa) di tutte le specie botaniche d’Europa: più o meno 11.000, dal Portogallo agli Urali. Quindi è ricchissima – grazie al terreno, all’acqua e al clima – di alberi e “biodiversità”, come si dice oggi col solito neologismo burocratico (ah, se si praticasse anche una “ecologia del linguaggio”!). Quindi si potrebbero fare scelte arboricole più oculate usando alberi nostri, tipici. Insomma, non si può certo dire che sia difficile trovare un albero autoctono e storico da piantare con successo nelle nostre città, nei nostri paesi, anche i più montani, piovosi o aridi.
      E infatti, tutt’intorno al bel paesino che prendiamo a esempio si affollano, premono, quasi che volessero entrarvi, stupendi boschi di castagni o lecci dalle chiome fitte e ombrose, abeti e pini cembri, larici, faggi e grandi querce salde e tarchiate che hanno visto i nostri trisavoli e perfino i loro nonni, snelli aceri e carpini, e fichi, meli, gelsi, noci e peri ormai abbandonati che ci hanno visto giocare da piccoli. “Chi vuole che li raccolga quei frutti, signore mio! Ammesso che siano mangiabili… Nessuno cura più gli alberi da anni, e saranno rinselvatichiti. E poi sa quanto verrebbe a costare oggigiorno raccogliere frutti da un albero?” argomenta il vecchio pessimista seduto sulla panchina in piazza.
      Eppure, gli alberi, autoctoni o esotici, sono la nostra memoria, la nostra vita. Anzi, la vita ce la danno letteralmente, spandendo ossigeno e depurando la mala aria di città dai gas tossici. Perciò dovrebbero essere di più, molti di più, fuori e dentro le città. E non sradicati, tagliati, capitozzati o oscenamente potati (v. l’orribile immagine accanto, presa in via Seneca, a Roma) per ogni futile motivo.
     Ci sono città, come Torino, in cui a bilanciare un’urbanistica piatta e senza fantasia, il Servizio Giardini del Comune si vanta degli alberi numerosi (circa 150 mila di 85 specie), ben curati, e di circa 320 km di viali alberati con 20 mila platani, 8000 tigli, 4000 aceri, 3500 ippocastani, 3000 bagolari, 2500 “olmi della Siberia” (appunto), e poi ancora elenca betulle, noci americani, abeti, querce varie, frassini, carpini, ciliegi da fiore ecc. Ma in molte altre città, la maggioranza, è un disastro. E questo nel “Giardino d’Europa”!
Grandissimo abete mutilato via Seneca 10 (picc)      E poi andrebbero scelti con oculatezza, con criterio. Invece, che accade? Che in ogni paese o città, quei poveri alberi – un tempo “esotici”, oggi “extracomunitari” – rischiano di vivere come alberi di “serie B”, chiamati a riempire uno spazio che non è il loro, a vedersela con un clima sbagliato, e sopravvivono stretti tra automobili, sacchetti di rifiuti, hangar e casacce di cemento (che dovrebbero nobilitare…), a loro volta nobilitati solo dai cani, che li scelgono – bontà loro – per gli  urgenti bisognini (che è pur sempre un riconoscimento d’utilità…), o recintati da inferriate kitsch (a proposito di cattivo gusto guardate che combinano i famigerati giardinieri comunali della prima città d’Italia), spesso potati sadicamente o estirpati dagli operai del Servizi Giardini, notoriamente colpiti dalla “sindrome del boscaiolo-taglialegna”.
      Gli alberi “da città” sono stati scelti tra migliaia di varietà geneticamente modificate da agronomi che non solo non hanno mai camminato in un bosco in vita loro, ma neanche amano camminare in città. Un tempo dovevano rispondere al criterio di “ornamento stupefacente”, perciò erano specie troppo alte e spettacolari, qualcuna però dotata di radici così deboli, lunghe e superficiali che qualunque lavoro stradale finisce per intaccarle e indebolirle, a rischio di caduta disastrosa e danni gravi a persone, case e automobili (con indennizzi milionari). E’ il caso del bellissimo pino italico, Pinus pinea, che fece scrivere al compositore Respighi il quadro musicale “Pini di Roma”. Fatto sta che, impaurito dagli avvocati del Comune, il sindaco di Roma, Alemanno, da noi affettuosamente definito “l’Attila degli alberi”, fece tagliare tempo fa oltre 100 altissimi e bellissimi pini tra gli 80 e i 100 anni di età lungo viale delle Medaglie d’Oro (sostituiti da piccoli e anonimi tigli), e un po’ dappertutto. Una strage che ha cambiato il paesaggio romano e che non dimenticheremo mai. Con quel sindaco Roma ha cessato, purtroppo, di essere “la città dei pini”.
      Per reazione al pericoloso gigantismo di ieri, ora i Servizi Giardini piantano pianticelle insulse e mingherline alte due o tre metri, che restano piccole per tutta la vita e che – cosa gravissima nella sempre più lunga estate italiana (in alcune città va da marzo a ottobre) – non fanno neanche ombra, ma in cambio lasciano cadere a terra qualche fiore non odoroso che sembra carta acquerellata. E’ chiaro che si tratta di piante arbustive esotiche, sagomate e tagliate “come se” fossero veri alberi. Doppia finzione, quindi: non solo alberi finto-selvatici, ma anche alberi finti. Come meravigliarsi se a potarli e maltrattarli ci sono dei finti giardinieri, in realtà boscaioli, tutti accetta, sega elettrica e cervello da 30 millimetri cubici?
      Alcune alberature, invece, di per sé sono sicuramente “belle” se le fotografate con un altro fondale. Penso al viale di olmi in via MacMahon a Milano, le cui radici devono competere con le rotaie del tram, ai bagolari di piazza D’Azeglio a Firenze e di alcune vie di Milano (ma piccoli boschi fitti di bagolari selvatici si trovano sulle falde di Monte Mario e anche nella parte selvaggia di villa Pamphili, a Roma), ai platani lungo il Tevere o nella “valletta dei cani” a Villa Borghese, e a quelli altissimi perché orrendamente potati di viale delle Milizie e via A. Doria, a Roma.
      Molti altri, invece, soprattutto quelli dei giardini privati e dei cortili condominiali più recenti, appaiono falsi, pretenziosi, volgari (ma a essere davvero volgari sono i loro proprietari). Nei piccoli paesi, poi, risultano spesso “fuori scala”, immiseriscono e banalizzano nell’ingiusto confronto di proporzioni le piccole e dignitose case tradizionali di pietra viva o di tufo intonacato. Lo capiscono questo gli amministratori di condominio, i Signori Condòmini, i geometri del Comune, perfino gli “architetti del paesaggio” (ah-ah-ah, come rido: se non è un ossimoro questo…) e i presunti esperti di verde pubblico che sbagliando chiamano le varie specie arboricole “essenze”? Ma lo sanno che le essenze sono gli oli essenziali estratti – appunto, l’essenza – da fiori e semi? Forse no: estetica, buongusto e buonsenso non si tramandano di padre in figlio, tantomeno si studiano a scuola.
      E non voglio neanche arrivare all’ecologia, anche perché non credo proprio che gli aghi di un pino nero di Sassonia trapiantato dopo tanti trattamenti genetici dell’industria della “botanica da giardini” nella marina e mediterranea Sabaudia (Latina) o le altrettanto aguzze foglie di una palma ottimisticamente piantata alla periferia estrema di Roma (ma lo stesso sarebbe se fossero in Centro, sia chiaro, e comunque “si vendica” non facendo maturare i suoi frutti…), cadendo al suolo o colonizzate dagli uccelli locali inneschino chissà quali reazioni bio-chimiche a danno di animali, piante e uomini. No, figuriamoci. Gli alberi, anche quelli sbagliati, all’aria, all’acqua e alla vita degli animali tutti, Homo insipiens compreso, fanno solo bene. Basta e avanza l’estetica.
      In criminologia colpisce il caso non infrequente in cui “la vittima è costretta a fare il carnefice”. Ebbene, nel Lazio come in Lombardia, in Campania come in Piemonte, Emilia e Abruzzo, insomma un po’ ovunque, gli alberi in città sono costretti dall’uomo a fare cose che mai farebbero se fossero nati per caso nel loro habitat d’origine, e così sono complici della piccola violenza all’estetica e alla logica.
      Per caso mi è capitata sotto gli occhi una visuale di Google Maps a caso, in una via qualunque e anonima dell’estrema periferia romana (Roma sud-est), via Bernardi. Sùbito ho fermato l’omino di Street View quando ho visto quasi uno accanto all’altro tra le case anonime un alto albero di aghifoglie, forse un abete, e una bella palma. Per carità, sono alberi bellissimi, anzi magari ce ne fossero in certi centri storici delle grandi città o nei paesi del nostro Sud completamente spogli di verde! Però sembravano messi lì apposta, a significare il nostro sbagliato rapporto di cittadini con gli alberi.
Alberi del genere, piantati nei posti sbagliati, finiscono per essere una compensazione della tipica alienante vita cittadina senza bellezza, senza Natura e dai ritmi stupidi (non dirò disumani solo perché la stupidità è solo umana...), e la testimonianza di vari deficit.
      In mancanza di architetti e urbanisti intelligenti, all'albero vengono affidati compiti non suoi. E’ “costretto” a fingere, a svolgere un ruolo sbagliato, a fare in qualche modo violenza alla logica dei luoghi, alle stagioni e ai climi. Insomma, il povero albero di città è costretto da proprietari sadici & ignoranti & snob (senza nobiltà) a recitare una parte altrui.
      E così le confuse nostalgie esotiche dei tanti rag.Fantozzi si mescolano: da una parte, il sano ricordo delle montagne – un Nord mentale, simbolizzato dall’abete – dall’altra lo struggente desiderio di deserti improbabili – un Sud da cartolina simbolizzato dalla palma – entrambi stereotipi turistici di grande presa emotiva.
      Cominciarono i “famosi” pini a Roma e i cipressi in Toscana ad assolvere al compito di ispirare i pittori anglosassoni e locali. Mentre il grande Roesler-Franz, quasi a farsi perdonare centinaia di disegni dal vivo della Roma della fine dell’800, che stava per sparire, quadri in cui gli alberi quasi non c’erano, faceva ore di cammino, zaino con cavalletto e colori in spalla, per salire attraverso la sassosissima Val Cavalera da S.Polo al Monte Gennaro, a riprendere alberi “veri” nel loro ambiente naturale “vero”.
Una scelta precisamente snob: niente alberi locali, cioè regionali, e neanche italiani, niente foglie normali "nostrane", come acero, leccio, rovere, castagno, olmo, gelso, arancio, limone, alloro ecc., che troppo ricorderebbero il quotidiano, le origini comuni, dunque il mondo agricolo e la fatica dei nonni o dei padri. Non le siepi di volgari alloro, lentisco o mirto, o il cespuglio di nocciolo, che “servono”, come sapevano i contadini, ma quelle di nobile tuja, che come tutti i nobili non serve, e che a differenza di rovo, biancospino e bosso ha l’aria esotica. Guai a proporre nella riunione di condominio di piantare nel grande cortile ricco di buona terra un albero di fico o d’arancio! “E che, siamo bisognosi? Non vorrete, spero, far vedere che non possiamo permetterci di comperare la frutta al mercato!”, risponde seriamente la signora del piano di sopra…
      E’ lo stesso motivo per cui sui famigerati balconi italici non il prezzemolo, le fragole, i pomodorini rampicanti, il timo, il crescione dei prati, l’aglio e la cipolla, regnano di solito, ma le rose, o gli inutili, orribili e puzzolenti gerani. La botanica da giardino della signora piccolo-borghese. Le piante non da avere e godere, ma da “far vedere”.
      Non il bisogno, quindi, ma l’evasione dal bisogno, non il qui e ora ma l’altro e l’altrove, un diverso mondo possibile fatto di simboli vincenti. L’abete riferito a una montagna da cartolina, attribuita curiosamente ad un Nord sinonimo di ricchezza. La palma riferita ad un innominato Sud inteso come “luogo di vacanza e ozio eterno”.
      E l’albero? Be’ l’albero da città, si sa, per quanto coinvolto nei più orrendi delitti estetici (tanto più se barbaramente potato, tagliato, “capitozzato” da giardinieri imbecilli), è incolpevole. E nei casi di snobismo cialtronesco e fantozziano, è solo un mezzo, un pretesto, un particolare pittorico, un estetismo sia pure inestetico, ma anche un anestetico (distrae, non facendo pensare ad altre brutture: architettoniche). Potrebbe perfino – e così lo si è già visto – essere disegnato, dipinto, riprodotto come fotografia, falsificato come albero di Natale di plastica. Ma non è solo uno specchio delle idee e dei complessi psicologici e sociali di chi lo pianta, è anche un messaggio, vuole comunicare qualcosa. Ai concittadini e a noi stessi: “Siamo qui e siamo noi – dovrebbe voler dire per conto degli Umani da città che non hanno il coraggio di dirlo con parole loro – ma, che credete?, potremmo anche essere altrove, ed essere diversi”.

IMMAGINI. 1. Quando agli alberi forestieri o esotici tocca “nobilitare” un’anonima periferia urbana. 2. Quando i “signori Condòmini”, magari laureati, che avevano piantato il piccolo albero di aspetto montano per abbellire la loro brutta palazzina, senza sapere che sarebbe cresciuto fino a superare tutte le case vicine, perdono la testa dopo la prima caduta d’un pesante ramo. Record mondiale della potatura più pazza.

JAZZ. Un bell’album del chitarrista Django Reinhardt (“Djangologie, disco 17, 1949): faceva parte di una serie francese di 33 giri ora disponibili in ascolto mp3 da parte di una banca dati americana, che sarà utile anche per gli altri volumi della serie Djangologie https://archive.org/details/djangologiedisco17. Ecco i 14 titoli: 1 Swing 39. 2 Clopin-Clopant. 3 Liza. 4 Sweet Georgia Brown. 5 What Is This Thing Called Love. 6 My Blue Heaven. 7 My Melancholy Baby. 8 Just A Gigolo. 9 Troublant Bolero (Boléro De Django). 10 Rosetta. 11 Dream Of You. 12 Begin The Beguine. 13 How High The Moon. 14 Nuages.

AGGIORNATO IL 21 SETTEMBRE 2018

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3 Comments:

Anonymous Mary the Red said...

Bravo, era ora! Nel mio condominio quando hanno piantato una specie dal nome impronunciabile: dovrebbe vivere solo in Tailandia!

11 ottobre 2013 alle ore 21:56  
Anonymous Anonimo said...

Un bellissimo articolo grazie! Ho piantato nel mio terreno circa 200 alberi di tutti i tipi, anche da frutta, ed ho capito che il problema più grande nella scelta degli alberi sono i vivaisti i quali consigliano con insistenza le specie più costose, sempre esotiche, vantandone i pregi e criticando le specie locali che si possono riprodurre facilmente e sulle quali non si può guadagnare molto. Questo unito alla sensibilità estetica e botanica dei nostri amministratori comunali fa il resto. L'odore emanato dalle foglie dei gerani allontana le zanzare ed è per questo che la piantina appare su tutte le finestre delle case. Elenaedorlando

18 marzo 2014 alle ore 08:23  
Blogger Nico Valerio said...

Bravi, riscopriamo le nostre specie arboricole, che sono tante, tantissime, più numerose che negli altri Paesi, e quindi non abbiamo nulla da imparare dagli altri. Evviva gli alberi italiani, che vanno d'accordo con la nostra storia Antica e il paesaggio. No allo snobismo sottoculturale dell'esotico.

18 marzo 2014 alle ore 13:54  

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