03 marzo 2006
Vero galantuomo
d’altri tempi, onestissimo, mite per natura, incline a una vena ironica,
paradossale e satirica, Mellini in politica si trasformava, diventava un leone.
Padrone del diritto come pochi, poteva permettersi nei suoi numerosi articoli, arringhe,
saggi e pamphlet di incalzare senza tregua il lettore o il contraddittore, da
efficacissimo e documentato polemista; mentre s’imponeva come possente e
implacabile oratore dal palco nei comizi in piazza, in televisione o dallo
scranno in Parlamento, dove fu presente per dieci anni alla Camera dalla VII
alla IX Legislatura
Nel 1970 fu lui,
non Pannella, il vero artefice della vittoria divorzista, con la Lega Italiana
per il Divorzio (LID), da lui fondata con Giorgio Moroni e altri, che aveva
deciso di cavalcare la tigre della proposta di legge sul divorzio di Loris Fortuna,
sanguigno come un avvocato socialista di fine Ottocento, e del compassato liberale
Antonio Baslini. Nell'epica adunata divorzista del 1 dicembre a piazza Navona
(piena come mai più in seguito, e non solo di divorziandi, ma di tantissimi
giovani), ricordo ancora il vocione di Mauro Mellini.
Ero molto
giovane e mi annoiavo a morte nella Gioventù liberale, quando conobbi a via
Frattina, nella sede del Partito Liberale, questo avvocato liberale già maturo,
che si era iscritto al primissimo Partito Liberale fondato alla Liberazione da
Pannunzio, e che trattava i giovani alla pari, come fanno le persone
intelligenti, con la faccia per bene e un non so che di fanciullesco e di
ingenuo nel tratto, caratteristica tipica degli idealisti. E anche questo mi
rassicurava.
Conoscevo già i
radicali. Avevo intervistato Pannella - allora un eterno ragazzone sempre in
maglione - sul giornale ufficiale degli studenti dell’Università di Roma,
"Roma Università", di cui ero direttore perché l'AGI, Associazione
goliardica italiana (liberale) aveva vinto le elezioni universitarie.
L'inchiesta - ho conservato il giornale - era "Il clericalismo oggi",
e aveva in copertina la foto d'un carabiniere in alta uniforme che faceva il
saluto a un cardinale.
Fatto sta che da
"liberalino" ventenne, un po’ aristocratico e con la puzza sotto al
naso, avevo ancora qualche residuo timore dei radicali: allora, molto più di
oggi, i nostri cugini liberal-socialisti avevano fama di super-alternativi e
provocatori, anche verso i liberali. E si capiva: per alcuni il distacco dalla
casa madre era recente. Ma in realtà, eravamo noi del PLI ad essere
insopportabilmente tradizionali, impacciati e borghesucci. Ad ogni modo,
rassicurato dalla vicinanza d’un vero liberale e d'una persona per bene come
Mellini, quando lui passò ai Radicali, lo seguii.
Mellini ebbe
immediatamente successo tra i radicali, proprio perché si presentava ed era
l'opposto di Pannella: una pasta d'uomo con amici e compagni di lotte, ma implacabile
con gli avversari (di volta in volta il Vaticano, la Chiesa, la Destra
reazionaria, i Conservatori, la Democrazia Cristiana, Fanfani, il Partito
Comunista).
Ebbe una lunga e intensa carriera politica, in posizioni
sempre di primo piano nelle lotte per i diritti civili, come allora si
chiamavano i normali diritti di libertà. Solo alla fine del decennio, col
declinare della parabola radicale, i suoi rapporti con Pannella si guastarono. Alla
fine degli anni 80, quando l’imprevedibile Pannella decretò la fine del Partito
Radicale e inventò uno strano Partito Transnazionale in cui le questioni
italiane finivano per sparire, sostituite dal “problema del popolo Uiguri” in
Cina e dalla “fame nel Mondo”, questo strano harakiri allontanò gran parte dei
radicali di base sostituendoli con terzomondisti e cattolici d’ogni risma, annacquando la antica matrice laica e disgustando la vecchia guardia liberale.
Si scontravano in quegli anni a via di Torre Argentina
almeno due opposte linee politiche: quella eternamente movimentista e “distruttiva”,
e quella parlamentarista e “costruttiva”. Da una parte la solita facilissima
demagogia, l’oratoria torrenziale e populista, gli slogan, la piazza, i
digiuni, le azioni provocatorie del gigione Pannella, narcisista innamorato
pazzo di se stesso. Dall’altra la Politica vera, cioè le mediazioni con la
realtà sociale, il lavoro quotidiano, le riforme concrete, l’approfondimento serio
e teorico, lo sporcarsi le mani col ben più difficile Governo in presenza di
altre forze politiche, la lotta politica quotidiana con gli avversari in
Parlamento, le mediazioni con gli alleati. Sciogliere il Partito Radicale che
era stato di Pannunzio e scegliere i vaghi temi universalisti del Mondo intero,
come la Chiesa, significava rinunciare alla difficile Politica e preferire gli
slogans.
Una contrapposizione che anticipava esattamente quella del
comico Grillo per il suo movimento 5Stelle (una parodia da avanspettacolo del
Partito pannelliano), decenni dopo. Da una parte, Pannella che teneva sempre il
partito sulla corda, con le firme, gli uomini-sandwich, i digiuni e le raffiche
di 20 referendum, per evitare che si formasse una vera e matura classe
dirigente radicale, capace un giorno anche di sostituirlo. Dall'altra, la
necessità concreta di una vera “politica”, di una quotidiana dialettica con i Partiti
e i movimenti della società, allo scopo di dar corpo finalmente a un nuovo e
attesissimo “soggetto liberale” ancora assente in Italia, a nuove leggi
liberali, a numerose riforme.
Ma, diciamo la
verità, anche la politica obbedisce alle leggi della psicologia. Nel Partito
radicale si incontravano e urtavano caratteri diversissimi, incompatibili tra
loro. Tipi strani, super-romantici e risorgimentali nei migliori dei casi, ma
nei casi peggiori aggressivi anche coi "compagni", talvolta al limite
della psico-patologia. Di "Cavallo pazzo", insomma, non ce n'era solo
uno (Mario Appignani): ma un'intera classe dirigente. Figuratevi il mite e
tranquillo Mellini, come deve essersi trovato. Del resto, allora più di oggi,
il Partito era Pannella, con le sue bizze da primadonna, i cambiamenti di
fronte, il narcisismo patologico, l'autoritarismo interno sfrenato. E andare
d’accordo con un "carismatico" non è mai stato facile per nessuno: io
stesso, pur defilato e indirizzato ai temi dell’ambiente, ho assistito o
partecipato a sfuriate epiche. Una volta, nel mio piccolo, ricordo che perfino
io al Congresso di Napoli parlai con l'oratoria irata e incalzante che avevo
appreso da Marco (ma contro di lui), all'una di notte e in una sala vuota. Ma,
purtroppo, tra i pochi ad ascoltarmi c'era un giornalista della Repubblica,
giornale che ce l'aveva coi radicali e il giorno dopo riportò integralmente la
mia filippica.
Da anni, ormai,
Mauro Mellini, da buon liberale laicista e giurista, ma anche da persona arguta,
aveva il dente avvelenato coi i “nuovi Radicali”, prima quelli sotto il padre-padrone
Pannella, poi dopo la scomparsa del capo carismatico con gli ormai
irriconoscibili e ancora peggiori compagni di strada del conformismo “politicamente
corretto” catto-sinistrese dalla Chiesa al Partito Democratico. Non gli andava
giù che la gloriosa Radio radicale si fosse trasformata in fiancheggiatrice del
Vaticano (c’è perfino una rubrica, assai poco critica), con citazioni continue e
comunanza d’intenti su diversi punti (p.es: carceri e immigrati) col giornale
dei vescovi L’Avvenire, con lunghissime corrispondenze quotidiane dalla Turchia
del dittatore Erdogan (“Turchia in Europa” è stato per anni l’assurdo slogan
radicale, almeno da quando la Bonino si mise a studiare l’arabo in Egitto) e
dalla Sicilia per una vera e propria “campagna” fanatica quotidiana in favore
dell’immigrazione selvaggia dall’Africa e dall’Asia.
Ormai, il vecchio Mellini, non si definiva più “radicale”: era
tornato da molti anni, come parecchi radicali della prima e seconda ondata,
specialmente quelli che provenivano dal PLI, alle più sicure sponde liberali.
Ma ora che Mauro Mellini è scomparso alla bella età di 93
anni, ancora lucido e battagliero (aveva appena preannunciato un nuovo pamphlet
sulla giustizia), il mio pensiero riconoscente va a una persona davvero “per
bene”, a un intelligente e critico galantuomo d’altri tempi, l’unico che mai si
comportò in modo men che commendevole tra i caratteriali, capaci di tutto,
mattoidi e aggressivi, anche tra loro, Radicali, fino a restarne ovviamente
vittima predestinata. Grazie, Mauro, per avermi ricordato quegli anni avventurosi
e irripetibili in cui la politica la facevano in Italia, come ai bei tempi del
Risorgimento, anche i ventenni – ventenni colti e maturi, però – che gli
avvocati-politici dell’epoca, a differenza di quelli di oggi, sapevano
scegliere.
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