12 giugno 2015

JAZZ. Ornette Coleman, l'anarchico, folle, poeta bambino della “free music”.

COLEMAN: LE PROMESSE NON TRADITE 
Nico Valerio
Settegiorni, 26 maggio 1974


Quella che è stata chiamata «l'arroganza della critica», quell'ironia pungente e demistificatoria che pare si accanisca contro le più candide tra le « vacche sacre » della musica, si rivela finalmente un'arma spuntata.
      Dell'irriverente musica di Ornette Coleman, si deve scrivere in tutta umiltà. Con commossa partecipazione si è ascoltato nuovamente dal vivo l'incorrotto poeta della « nuova musica », il musicista-epoca che verso il 1960 ruppe (e non era, si vide poi, il capriccio d'un mattino) le catene che ancora legavano ad un determinato codice le possibilità armoniche e ritmiche, il fraseggio e lo stesso ruolo della scuola afro-americana. Era l'invenzione – lui però parlava di semplice « scoperta » – di un linguaggio libero da schemi, una musica che tornava a privilegiare, come nell'antica New Orleans, il momento dell'improvvisazione collettiva, caotica: la « free music », appunto.
     Ornette Coleman ha portato il suo sassofono contralto (non disdegnando di misurarsi in qualche brano con la tromba e col violino) al Music Inn, dove ha dato dieci concerti in cinque serate, accompagnato da Norris Jones al contrabbasso, James Ulmer alla chitarra e Billy Higgins alla batteria. Un successo strepitoso.
      E la musica? Le riserve, caute, fatte a proposito di Archie Shepp – vedi recente rassegna di Bergamo – non valgono per il suo maestro e ispiratore, Ornette. Valgono, però, e a maggior ragione, le considerazioni espresse su un certo ammorbidimento di toni, per alcuni segno sicuro d'involuzíone, riscontrato nel linguaggio del musicista, drammaturgo e ideologo del Black Power. Se il processo di maturazione (e la necessità di rimediare alla pochezza dei suoi accompagnatori), ha portato Shepp a riscoprire il blues che è in ogni jazzista, il felice stato della maturità artistica ha spianato nel linguaggio colemaniano qualche più acerba punta d'irriverenza (e non sempre), a tutto vantaggio della profondità e umanità del suo discorso musicale, poeticamente delirante e liberatorio ma sempre più lirico. Un andamento « schizofrenico » che suggerisce analogie con la musica di Parker, modello primo e ispiratore di Coleman.
     Il Coleman ascoltato è sul piano stilistico il caposcuola che conosciamo, ma sul piano artistico è un poeta dotato di illimitato fervore creativo, di inesauribile fantasia melodica. I suoi proverbiali brevi « riffs », le filastrocche fanciullesche condite di un'ironia distruttiva, quell'aria stralunata ed astratta di certe frasi, l'angoscia di certe iterazioni drammatiche e sconvolgenti, confermano la matrice espressionistica della sua musica – come in fondo di tutto il jazz – appena rotta di tanto in tanto da improvvisi squarci evocativi.
     Sfaccettature espressive impersonate significativamente da altrettanti strumenti, la cui scelta è troppo sintomatica per essere casuale: la tromba di un candore e di un lirismo disarmati per chi è abituato ai freddi polari di un Hubbard o di un Tolliver, uno strano violino bianco di plastica, per di più elettrificato, ai cui stridenti accordi è oggi affidato il compito di « rottura » un tempo lasciato al celebre sassofono di plastica gialla. Ma naturalmente è al sax alto che Ornette opera una mirabile sintesi tra il momento ludico e anarchizzante della « rivoluzione » del free e l'humus poetico, l'anima perenne del popolo negro, quel blues accorato che discende in linea diretta (anche se allora i conservatori non lo vollero capire) dalla scuola pop, da Charlie Parker. In più c'è stata questa volta la perfetta fusione con musicisti nuovi, a parte il celebre Higgins alla batteria, un bassista e un chitarrista che erano l'esatto equivalente di Ornette ai rispettivi strumenti.
      Una musica che certo non si ascolta per passatempo: qualcosa si spezza dentro, sempre. Si sbloccano certi oscuri meccanismi psichici, si liberano certe inconsapevoli tensioni interne occultate dalla nevrosi che è nell'uomo moderno, e la musica assume il valore liberatorio d'una terapia, la buona norma di una raffinata igiene mentale.
      Non sono farneticazioni: è proprio quello che è accaduto all'ospedale psichiatrico di Limbiate, vicino Milano, dove Coleman – invitato dal corpo sanitario – ha suonato la sua musica di fronte ad alcune centinaia di spettatori-pazienti. Tutti erano molto toccati dalle melodie che troppi « normali » giudicarono negli anni scorsi fredde, disumane e velleitarie. Lo stesso Coleman si è commosso, nell'accorgersi che proprio la sua
musica toccava le corde segrete di un'umanità sopita ma ancora palpitante. (Nico Valerio)

41 ANNI DOPO QUEL MIO ARTICOLO...
LA SCOMPARSA DI ORNETTE
MA NON E' STATO PER CASO UN PO' SOPRAVVALUTATO?
di Nico Valerio 11 giugno 2015
E’ scomparso oggi a 85 anni il sassofonista e compositore Ornette Coleman, padre dell’avanguardia jazz, che all’inizio chiamò, non trovando le parole, “New Thing”, ma che poi fu chiamata Free Jazz. Coleman, diciamolo, non piaceva ai colleghi musicisti. Tutta la sua musica era considerata urtante, cacofonica, stonata, con in più il sospetto dello sberleffo, della presa in giro. Jazz? Ma figuriamoci. Che voleva dire quel tizio quando pretendeva di suonare a quel modo, e pure un sassofonino di plastica gialla, quasi un giocattolo trovato da un rigattiere?
      Che voleva dimostrare, chi voleva contestare e perché? Erano forse tutti stupidi, gli altri jazzisti, tutti tradizionalisti, passatisti, reazionari, venduti agli impresari e al business, anche quelli che avevano appena fatto la rivoluzione del be-bop? O non era lui, piuttosto, un velleitario megalomane, presuntuoso e forse un poco fuori di testa? Ma sì, dissero gli antipatizzanti: un provocatore, un bluffatore, ecco chi era. Neanche tra i dilettanti pazzoidi di paese, la domenica sera, si sarebbe tollerato un tipo simile. Questo dovevano aver pensato alcuni colleghi di jam session al primo incontro sulla pedana con Ornette.
      Poi, a poco a poco, per iniziativa di pochi critici, iniziò la lenta comprensione-costruzione del suo mito. Un Van Gogh? No, piuttosto un Pollock, e non sempre ben riuscito. E subito si dette per scontato, sempre continuando a non capirlo (perché c’era poco sa capire) che, pazzo o no, fosse almeno un poeta, un uomo a modo suo coerente nella sua incoerenza.
      "Musica libera", "Cosa nuova"? Ma perché, l'altro jazz è stato forse una musica "serva"? Ma se perfino dentro le orchestre definite "commerciali" di Goldkette e Whiteman, dove tutto era scritto, i solisti riuscivano a essere sempre se stessi! Insomma, a pensarci bene il nuovo, anche "quel" nuovo, era ovvio, tautologico.            Come se il jazz non fosse sempre stato, per coloro che lo volevano, libero, nuovo e d’avanguardia, e anche difficilmente definibile. Tanto che - a differenza della musica colta europea - perfino la scrittura tiene conto nel jazz delle volontà e capacità e libertà dei singoli solisti, espresse in fase di prove. E poi, la megalomania più irriverente e più ingiusta: niente di meno, voler rivoluzionare con una “libertà totale” la stessa rivoluzione be-bop appena compiuta, da cui egli stesso proveniva, sia pure dalle file secondarie. Tanto che nei primi anni un giornalista cultore di aforismi aveva detto addirittura che Ornette altro non era che un Parker suonato a 78 giri. Un Parker, tra l'altro che era stato subito divinizzato come il più grande eroe romantico del jazz, ma ncora non era stato metabolizzato, ben capito dalla massa dei jazzofili. Insomma, non ha senso una rivoluzione abborracciata e caotica tentata dopo una rivoluzione vera e vincente, cioè ormai accettata. Infatti, nel frattempo la rivoluzione vera del jazz l’avevano già fatta Gillespie, Parker e Monk, e anni dopo Coltrane l’aveva estesa verso tutto l’estensibile. Così, il tentativo di Coleman poteva essere considerato insieme velleitario e paradossale.
      E infatti, Coleman si trovò ben presto un eterno avanguardista autoreferenziale, senza veri eredi al di fuori del suo bellissimo gruppo iniziale (come non ricordare la cornetta di Don Cherry?). Perché alle avanguardie, si sa, dovrebbe seguire il grosso dell’esercito.Che invece nel suo caso, come per l’eterna avangiardia della musica dotta europea, non seguì affatto, sia nei dischi che nei concerti. Anzi, sia i musicisti, sia il pubblico, fecero dietro-front e si diressero di nuovo verso il più rassicurante e divertente nuovo hard-bop – come rivelavano gli stessi musicisti di avanguardia quando poi suonavano per il piacere proprio negli after hours in albergo o nelle cantine – il vero filone centrale del jazz moderno, quel nuovo mainstrean che, appunto, deriva dalla rivoluzione di Parker, a sua volta evoluzione dello swing, ma lo semplifica, lo adatta all’impiegato, allo studente distratto con la ragazza, aggiunge ritmo e soprattutto dà più libertà e tempo ai solisti, eliminando insomma quelli che potevano sembrare, e non lo erano, dei “difetti” di comunicazione e di psicologia del be-bop.
      Il free-jazz, invece, poiché basava la propria identità proprio sul “contro tutto e tutti”, non fu libero di evolversi e di maturare, fu insomma prigioniero dei propri schemi. Altri, invece, come Coltrane e lo stesso nuovo hard-bop, presero spunti e libertà dal free. Ornette, invece, tenne conto di questo elemento edonistico e dionisiaco della musica solo negli ultimi anni. Ma era troppo tardi, ormai. E ha pagato con la solitudine prima, con l’irrilevanza stilistica poi. A che serve, anche ai geni, sopravvivere a se stessi?
      Insomma, quarantuno anni dopo quell'articolo scritto da giovanissimo su Settegiorni (in cui però, va detto a mia discolpa, ero più cronista che critico, e più che giudicare mi limitavo a presentavo il personaggio, strano sì, ma affascinante e carismatico), dopo aver visto quanto scarsa è stata la sua eredità, dopo aver ascoltato tutto quello che è poi successo nel jazz, mi sorge un dubbio atroce: non è che il "grande" Ornette sia stato un po' sopravvalutato?

AGGIORNATO L'11 GIUGNO 2016