19 marzo 2014

IMMAGINI nei giornali e sul web: una faccia (anche finta) per ogni circostanza.

Berlusconi (CdS-La Presse) La faccia ad hoc. Ecco un’altra buffonata impressionistica di giornali e tv all’italiana, che dimostra dietro il trucchetto elementare per sedurre il lettore una furbizia un po’ ingenua e infantile. Scegliere la faccia adatta a ogni circostanza.
Non si tratta solo di scegliere, però, ma addirittura di “decidere”, dopo che è accaduto l’evento che lo riguarda, l’espressione “giusta” che “dovrebbe avere”, anzi “deve avere”, secondo gli stereotipi di “basic psicology for children” in possesso della Redazione, un personaggio della cronaca ritratto nella foto se gli accade qualcosa. Corrucciato o anche indispettito per l’accusa lanciata da un avversario; sdegnato o perfino irato per il tradimento della moglie annunciato in tv; amareggiato o financo avvilito per la denuncia d’un figlio per droga; tetro oppure solo depresso dopo una condanna penale o civile? Per di più, si sa, le cattive notizie essendo giornalisticamente molto “migliori” delle buone (il che vuol dire che anche i giornalisti mediocri riescono a cavarci un pezzo), si privilegiano le vicende negative. Che, appunto, secondo l’immaginario collettivo redazionale tutto, assicurano le facce più espressive, che rendono di più.
Peccato, però, che la foto sia stata scelta – e pure con molto cinismo – tra mille che giacciono in archivio, accumulate preventivamente per ogni bisogno.
alfano-disperato Peccato che poi nella realtà, essendo il personaggio pubblico di solito una famosa imperturbabile faccia di bronzo stile KGB ai tempi dell’Urss, rispetto a cui perfino il re degli scacchi Spasski apparirebbe un giovincello istintivo facile-facile a tradire i propri sentimenti dai muscoli del volto come tenera fanciulla al primo incontro amoroso, le redazioni non trovano mai quello che cercano.
Così devono “simulare”, cioè accontentarsi di foto di repertorio scattate casualmente dai bravissimi e pazienti fotografi delle Agenzie. Ecco come, con una apposita didascalia generica e solo allusiva, un industriale che si massaggia la fronte per il solito malditesta va benissimo se qualche mese o anno dopo la sua azienda fallisce. Un ministro un po’ stanco che sta solo compiendo il sano e salutare rito del “face massing”, il massaggio facciale che tutti noi dovremmo fare più volte al giorno, viene dipinto, anche sull’implacabile internet, come “disperato” (ormai anche certi blogger imitano tutti i viziacci dei giornalisti, ma senza i pochi pregi e senza saper scrivere).  Così un amministratore del sud che con tutta tranquillità si era stropicciato gli occhi per sonno, stress e noia in un tranquillo Consiglio comunale, oggi che è scattata l’accusa di mafia si ritrova su tutti i giornali e telegiornali in quella evidente, lampante – diciamolo – ammissione fotografica di shock e colpevolezza.
courbet_uomo%20disperato (picc) Ad esempio, il politico o ex-politico Silvio B (ma, attenzione, qui è solo un simbolo: il problema tocca tutti i personaggi pubblici e i politici ritratti) sembra che si disperi come una qualsiasi donnetta sensibile o un impiegatuccio appena licenziato, dopo la conferma della sentenza della Cassazione che lo manda a casa o a un lavoro socialmente utile. In realtà, è stata scattata chissà quanto tempo fa, in un momento in cui l’ineffabile mister B., notoriamente di scorza dura e poco emotivo, era stanco o sonnolento, come capita a tutti noi. La foto è stata archiviata dall’agenzia e utilizzata al momento opportuno. Lo fanno un poco tutti i giornali del mondo, per vivacizzare un giornalismo ormai chiaramente in decadenza. Solo che in Italia si esagera.
Grisenti politico trentino in auge E le espressioni delle foto cambiano da un giorno all’altro: e questo è il bello. Il trentino Alessandro Ghezzer senza saperlo mi ha dato lo spunto per scrivere questo articolo di “costume giornalistico” dicendosi sulla sua pagina Facebook scandalizzato per il diverso “trattamento fotografico” ricevuto da un noto politico locale dall’Adige, il giornale più importante della regione. Prima (sopra) una bella foto sorridente, con tanto di dita a V, quando il politico era in auge; poi (sotto) un’espressione profondamente scettica, impotente e di doloroso rifiuto (apparentemente) dopo una sentenza sfavorevole dei giudici. Certo, il confronto trattandosi del medesimo personaggio con le due foto accostate è vistoso e impietoso, ma colpisce solo chi non conosce o non accetta la psicologia dell’immagine nelle redazioni oggi. Finiti i tempi delle foto asettiche, rarissime, ieratiche e quasi “ufficiali” del Corriere della Sera di Albertini. Grisenti in disgrazia su l'AdigeNon è tanto servilismo (per questo ci sono ben altri mezzi e più nascosti, figuriamoci: la stampa in generale è maestra in quest’arte), ma proprio l’adeguamento alla logica dell’espressività fotografica, al moderno ABC di ogni responsabile fotografico di giornali e Tv.
Comunque, ogni volta che vedo queste “foto d’archivio e di circostanza”, attento come sono alla psicologia della comunicazione, mi arrabbio. Perché mostrano il prepotere che hanno nei giornali da oltre 30 anni grafici, art-director e fotografi, che condizionano ormai anche i contenuti e le misure. E anche il cinismo di chi gli ha dato pieni poteri per agganciare gli ultimi lettori marginali. E, guarda caso, è da 30 anni, cioè da quando sono “più belli” a vedersi” (da lontano) ma più insulti o più insopportabili a leggersi (da vicino), che i giornali italiani hanno imboccato una china sempre più ripida. E da critico n.1 del giornalismo italiano, non posso che notarlo.
La parola alla difesa? Bene, parla un testimone eccelso, a discarico: Ma guarda che una foto impressionistica, come la chiami tu, suggerisce, aiuta emotivamente, è meta-semantica, anzi è più semantica dell’articolo stesso (il grande Pannunzio, mio preferito, al cui nome mi inchino).
Già, caro Pannunzio, ma le “tue” geniali foto erano fuori testo, quindi veri e propri articoli, anzi erano spesso in voluta contrapposizione al pezzo in cui erano quasi casualmente annegate. Insomma, non imbrogliavano il lettore, ma davano flash, spunti, commenti paralleli o ironici.
Oggi invece si truffa, si imbroglia, perché il lettore-massa di oggi (e quello del Mondo era sicuramente di ultra-élite) tende a coincidere con quello Tv per semplicità, ingenuità, ignoranza e scarso spirito critico. Quindi crede che davvero quel politico appaia così affranto o gioioso per motivi attinenti all’articolo, all’evento. Non sa che i personaggi pubblici e soprattutto i vecchi politici, ammesso che siano così sensibili, stanno bene attenti a non mostrarsi deboli e affranti davanti a tutti. Del resto, se fossero delicati come mammolette e non avessero grinta e durezza di carattere, come avrebbero potuto sopravvivere e prevalere nella dura lotta politica o mediatica?
Ad ogni modo, che vi devo dire, questa "tecnica impressionistica" dei ritratti mi dà fastidio due volte: perché è antiestetica e volgare di per sé, e perché presuppone che i giornalisti dirigenti abbiano cinicamente programmato il giornale sull’intelligenza media (in realtà bassa) del famigerato lettore di strada, ingenuo, emotivo, credulone, poco esperto di tecnica della comunicazione. Insomma, se non vedi tutto come l’impiegato Rossi al bar, è umiliante oggi vedere i telegiornali o sfogliare un quotidiano.
IMMAGINE: 1. Berlusconi ripreso col malditesta (Corriere della Sera/La Presse). 2. Il ministro Alfano mentre si massaggia il viso per relaxin: su internet verrà definito “disperato”! 3. Ecco come l’art director o il grafico di Redazione vorrebbe che un personaggio sotto accusa rispondesse degnamente per dare una mano alle vendite del giornale all’evento che lo ha colpito (Courbet, Uomo disperato, autoritratto). 4. Il politico trenino Grisenti così era effigiato quando era in auge. 5. E così invece è stato presentato dall’Adige dopo una condanna.
JAZZ. Un album di Clifford Brown in Jam Session (1954) che probabilmente pochi avranno in discoteca. I brani: 1. What Is This Thing Called Love (Cole Porter), 2. Darn That Dream (DeLange - Van Husen),  3. Move (Denzil Decosta Best), 4. Medley : My Funny Valentine (Rodgers - Hart), Don’t Worry ‘Bout Me (Rube Bloom-Ted Koshier), Bess, You Is My Woman Now (Gershwin-Heyward), It Might As Well Be Spring (Hammerstein-Rodgers). I musicisti sono: Clifford Brown trumpet,  Maynard Ferguson trumpet, Clark Terry trumpet, Harold Land tenor saxophone, Herb Geller  alto saxophone, Richie Powell piano, Junior Mance piano, Keter Betts bass, George Morrow bass, Max Roach drums, Dinah Washington vocal. Hollywood, California. October 14 of 1954.

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08 marzo 2014

8 MARZO. Ma serve il giorno della festa della donna, la metà del genere umano?

Festa della donna 9 marzo e festa dell'uomo. (Origone) 8 marzo, “Festa della donna”? Suvvia, anche i più “femministi”, femmine e maschi, capiscono al volo che non serve né alle donne, né agli uomini.
Qualunque sia  l’origine storica dell’evento, che dal primo Novecento in poi, tra Germania, Stati Uniti e Russia, si è svolto nelle date e occasioni più diverse, la Giornata Internazionale della Donna, oggi popolare in Italia come “Festa della donna”, che pure era nata come evento di sensibilizzazione e protesta, si è banalizzata anno dopo anno, snaturata in una forma minore e “meno tossica”. Come hanno lamentato molte intellettuali donne, tra cui le stesse femministe storiche. E’ vissuta ormai come una “festività” uguale a tante altre, addirittura stampata sui calendari, dove bisogna ammettere che calza a pennello tra due SS. Felicita e Perpetua, ovviamente martiri (il 7 marzo), e S. Francesca Romana, religiosa, cioè suora. Martirio aggiuntivo – hanno denunciato cristiani di base e inquirenti – quello riservato alle donne della Chiesa, molte delle quali costrette dai preti a fare da cameriere, inservienti, cuoche, amanti (il 9 marzo).
E, certo, con grande successo di pubblico, di donne soprattutto, ma anche di uomini, che ovviamente non si lasciano scappare l’occasione più unica che rara d’un giorno in cui i locali e le strade sono affollati del colorito pubblico femminile. Visto che gli esseri umani, e gli italiani in particolare, tendono alle ricorrenze festive, e che ogni cosa seria, drammatica, luttuosa, col passare dei decenni diventa una ricorrenza gioiosa (regali, fiori, risa, divertimento, cena tra amiche, perfino vacanza dal lavoro, come diceva ieri una ragazza della Moldavia)! Le donne, perciò, si fanno gli auguri e li accettano dagli uomini, come se si trattasse di un onomastico personale.
Ma la ricorrenza, essendo le donne la metà del genere umano, e in certi Paesi come l’Italia, la maggioranza, è una terribile arma a doppio taglio, anzi ipocrita, inadatta e sconveniente. Se infatti l'8 marzo, soltanto l’8 marzo, è la ricorrenza della donna, logica vuole che tutti i restanti 364 giorni siano, "a contrario", la lunga, lunghissima, illimitata festa dell'uomo, come fa notare il disegnatore satirico Origone nella vignetta in alto.
Ecco perché da liberali che amano la giustizia, il buonsenso e il "mai troppo", siamo un po' contrari all'8 marzo come si è caratterizzato nel tempo. Non solo perché a noi interessa, giustamente, l’intelligenza, il merito e anche l’onestà delle persone, non il genere sessuale, a cui non prestiamo la minima importanza pubblica, se non per le nostre private scelte affettive e sessuali, ma anche per un motivo minore e più popolare.
Una festa del genere, andrebbe bene, semmai, per una causa ultra-minoritaria, per tutelare una minoranza di persone (p.es. i nudisti, gli atei, gli ebrei, i buddisti, gli amanti del jazz), oppure per ricordare ai cittadini di tutelare un animale raro o in via di sparizione, come l’orso, la lince, il lupo o l’esotico panda, o meglio ancora per i poveri alberi, che non hanno neanche zanne e artigli per difendersi dalle stupide violenze degli uomini, non certo per la parte preponderante o quasi del genere umano.
Siamo seri: un Paese in cui ben 30 milioni e 688 mila sono le donne, mentre “solo” 28 milioni e 745 mila sono gli uomini, non solo non celebra la Festa del suo genere più diffuso, maggioritario, ma neanche la Ricordanza della donna. Sarebbe, anzi è, altamente offensivo e discriminatorio per le donne, che se è vero che si sentono discriminate, così sarebbero, sono, come dicono a Napoli “cornute e mazziate”. Anzi, credo che se i maschi fossero donne, si offenderebbero a morte, e farebbero in strada e sui giornali il diavolo a quattro contro questa umiliante festicciola, e ancor più per le “quote celesti” nelle Istituzioni pubbliche, messinscena che sotto l’apparenza di una spensierata festività, occasione di guadagno per i venditori di fiori e dolci, e per bar e ristoranti, in realtà riconsegna le donne al ghetto della minoranza inetta, incapace, che perciò va tutelata come un animaletto indifeso. Addirittura per legge, dall’alto, paternalisticamente, con le “quote rosa”. Perché si sa, da sole, pur essendo la maggioranza del Paese, alla libertà e all’uguaglianza non arriverebbero mai. Deprimente. Sia per le femmine che per i maschi.
E invece? C'è già il numero, l'alto numero, la maggioranza delle donne. Questo dovrebbe garantire, se le stesse donne lo volessero, una supremazia teorica o almeno la possibilità di autodifesa. Ma lo vogliono veramente? O non preferiscono alcune la comoda strada della lamentela e del vittimismo? Le molte donne intelligenti e dignitose l’hanno già capito da tempo, e infatti non chiedono più né festa della donna, né “quote rosa” garantite a prescindere dal merito nelle Istituzioni. Del resto, caratteristica della libertà è che essa la si conquista, non la si accetta umilmente quando il Sovrano la concede.
E poi c'è un secondo messaggio nella vignetta “femminista” del disegnatore "maschile". Un messaggio tratto pari pari dall'immaginario femminile d’un tempo. La “festa dell'uomo”, cioè il quotidiano andazzo dei tempi ordinari, (“passata la festa e gabbata la Santa”, sottinteso donna) vuol dire che la donna è riportata alla sua “normalità” sociale e familiare aberrante, cioè che come regola è solo una serva che lava per terra senza dignità.
Questo, invece, per la diversa organizzazione del lavoro familiare, è oggi meno vero d’un tempo, anche se pur sempre vero per alcuni strati sociali. Ma questo potrebbe lamentarlo in teoria anche un ipotetico Movimento per la Liberazione dei Maschi. Pensiamo semplicemente ai lavori umili o bestiali (di pura forza) o alienanti o umilianti, che i maschi “in quanto tali” sono costretti a fare in uffici, fabbriche, mercati, ditte di traslochi, porti, ospedali, abitazioni, giardini, cantine, garages, Abbiamo ascoltato con le nostre orecchie in un Ospedale romano dottoresse e infermiere chiedere a gran voce e in modo concitato l’intervento di “due uomini”, per riuscire a trattenere un anziano energumeno fuori di cervello che non potevano sedare. Perciò sono le stesse donne a specificare che non tutti i lavori femminili, fossero pure il lavare i pavimenti, sono da considerare schiavistici e disuguali, ma solo quelli appioppati per pura, punitiva discriminazione di genere contro la volontà della donna.
Ciò detto, accettiamo il carattere consolatorio e autoreferenziale della Festa, ma solo se è davvero una festa, cioè un’occasione per le donne e per gli uomini di incontrarsi. Perché le incomprensioni, i tabù e le comode ipocrisie si perpetuano e si rafforzano grazie alla scarsa vicinanza, alla sporadica frequentazione e alla mancanza di dialogo. Se le donne frequentassero un po’ più gli uomini, anziché le donne, forse imparerebbero a farsi valere di più e a non considerarsi comodamente perdenti.

JAZZ. Celebre e fondamentale album (40'24") del più grande trombettista dell’hard-bop, Clifford Brown (Clifford Brown Memorial, Blue Note 1526). I brani sono: "Hymn of the Orient", "Easy Living", "Minor Mood", "Cherokee", "Wail Bait", "Brownie Speaks", "De-Dah", "Cookin'", "You Go to My Head", "Carving the Rock". Le formazioni sono: Clifford Brown (tp), Lou Donaldson (as), Elmo Hope (p), Percy Heath (b), Philly Joe Jones (ds), del 9 giugno 1953, e Clifford Brown (tp), Gigi Gryce (as, fl), Charlie Rouse (ts), John Lewis (p), Percy Heath (b), Art Blakey (ds), del 28 agosto 1953.

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05 marzo 2014

CINEMA O CULTURA? Spettacolo e affari: “Non l’ho visto e non mi piace”.

Sorrentino Oscar LA "CULTURA" SECONDO LORO. MA SI’ QUELLA CHE SI CELEBRA DI NASCOSTO NELLE SALE BUIE. “Non l'ho visto e non mi piace” diceva di un film da stroncare a priori non so più se un raffinato-tranchant Goffredo Fofi, un salottiero-snob Nanni Moretti o qualcun altro con altri aggettivi, interpretando il critico supercilioso [era da parecchio, cioè da quando ero giovane e facevo il critico, che non usavo questa parola... ma ora ci posso mettere la faccina ...:-) ]. Però la battuta dell’intellettualino politicamente corretto anni 70 ora ci vuole, eccome, perdinci. Dopo la “Nominescion” all’Oscar dell’italiano Sorrentino!

Visto il Tripudio Nazionale per il “nuovo Fellini”, l’Adunata Oceanica nella nuova Piazza Venezia Online, solo perché La Prima delle Arti Superne, il Cinema, decreta ancora una volta, dopo Gorgonzola e Ferrari (ma tutti sanno che preferisco di gran lunga la prima), l'Italico [un altro formaggio] Genio, premiando non so più se il discreto regista della Grande Bellezza o il grande regista della Discreta Bellezza (fatto sta che due “grandi” così vicini sono troppi: una ripetizione. Del resto mi dicono che il regista è discretamente alto, quindi Altezza Mezza Bellezza).

Film dedicato e ambientato a Roma, ma che Roma non rappresenta minimamente – dicono coloro che mi piacciono e che l’hanno visto – film stilizzato e convenzionale, improbabile, senza capo né coda, pieno di luoghi comuni che sembrano fatti a posta per piacere agli Americani di bocca buona. E alcuni ne hanno scritto con l’inchiostro al ferro-cianuro-di potassio, con una recensione  d’ambiente, di temperie socio-politica, sul Fatto Quotidiano (“Oscar: la grande vuotezza”) e con due articoli su Linkiesta, (“La Grande Bellezza di Sorrentino è una boiata pazzesca”, “Flaiano, Sorrentino e la Grande Bruttezza”), per tacere di altre testate.

Altro che Fellini. L’amico Roberto Dallera su Facebook ha parlato di «tremenda dissonanza con Fellini e la sua Dolce Vita, a cui tanti lo hanno accostato. Ma Fellini era il cantore di un mondo che non c'è più, e descriveva una città permeata da un unico fremito interclassista. La sua narrazione coinvolgeva gente di ogni status sociale e di ogni quartiere. Fellini descrive e omaggia quello che vede e che intuisce dietro al boom anni '60 che pervade tutto e tutti. La Grande Bellezza, invece – continua Dallera – mi pare solo il sogno di un dandy napoletano anelante di mondanità romana, che per rappresentare come sarà lui a 60 anni trova un attore che gli somigli dentro e lo fa danzare nei suoi panni. Un film già concepito nella sua mente come un gesto narcisistico e autocelebrativo. Sorrentino è il provinciale che vorrebbe entrare a Roma dalla porta principale e vi riesce tramite il più buffo degli espedienti: fare un film che a molti sembra un'altra cosa da ciò che è. In realtà lui non ha fatto altro che dare forma ad un sogno, nella speranza che quella Roma diventi davvero la sua Roma. Incurante che quella Roma non esiste, e se esiste è solo parvenza, un vuoto di esistenze disilluse e disperate di vip annoiati che recitano se stessi mentre tutto intorno crolla senza che se ne rendano conto».

Capisco il provincialismo dei cinefili, che spesso un disastroso errore dello scanner trasforma in cinofili, cioè finalmente amanti di qualcosa di vivo. Capisco il rifarsi ai pochi “nomi sicuri” della cultura media, scopiazzandoli allegramente. Capisco il vezzo di chi non ha niente da dire di reale, cioè di chi non sa leggere la realtà che lo circonda, di fingersi all’improvviso pensoso, fantasioso, allegorico, comunque almeno profondo. Capisco il grande parlarsi addosso liberatorio dopo decenni di bocconi amari e soprattutto di sale vuote. Capisco pure i soliti paralleli con Flaiano e Fellini, due intellettuali di provincia che Roma non capirono affatto. Semmai si illusero di capirla e, molto meglio di Sorrentino, ovviamente, l’adattarono come fondale scenografico ai propri sogni arbitrari, al proprio spirito visionario. Capisco perché tanti piccoli intellettuali napoletani e meridionali estranei a casa loro (già, perché non si esprimono lì dove capiscono l’ambiente?), arrivati a Roma la prendano per casa propria, per propria Patria, scambiando indifferenza e rilassatezza – tipiche d’ogni metropoli – per tolleranza, benevolenza, simpatia, comprensione. E invece non la capiscono affatto e a loro volta non sono capiti.

Capisco tutto, ma non capisco come mai si appioppi a questa messinscena della comunicazione commerciale, che altro non è che un premio dato dalla lobby dei distributori cinematografici che domina il consumistico business dello spettacolo negli Stati Uniti, un Grande Valore Culturale, mentre i nostri grandi monumenti (per contrasto uso apposta le minuscole), i nostri capolavori della pittura e dell’archeologia, i nostri libri, la nostra lingua, la nostra e l’altrui musica (vergognosamente fuori dalla scuola, insieme con l’educazione civica; e se la passano male perfino storia e geografia), e per finire l’istruzione secondaria e universitaria, non siano cultura. Mentre per i politicanti delle Regioni (da cancellare!) sono cultura anche gli Stadi di Calcio, oltre alle Sagre della Porchetta, del Tartufo, del Raviolo, e alla processione del Sacro Chiodo di N.S.G.C.

AGGIORNATO IL 7 MARZO 2014

JAZZ. Appena scomparso Parker, già era scoppiato l'hard bop, una evoluzione meno sofisticata-intellettuale-dissacrante del be bop puro delle origini, con assoli più lunghi e importanti, ritmo più incisivo, melodie più popolari (più facili) e riproducibili. Sembrava, scrivevano pochi critici superciliosi, un vendere il jazz all'industria discografica, ma... ce l'avessimo oggi (anzi, che dico? ce l'abbiamo ancora: è l'anima del mainstream moderno...). Fu grazie all'hard bop che il j. moderno si fece conoscere da un largo (si fa per dire) pubblico. E, particolare non secondario, non fu una soluzione dell'eterna avanguardia elitaria e autoreferenziale, ma il filone centrale . Quello che rivelò il grande Clifford Brown, i suoi allievi Lee Morgan (il migliore), Dorham e altri, ma anche Blakey, Silver, un Rollins che apparve un genio opposto a Coltrane, e invece ben presto deluse ripiegando sul calypso... Insomma, un grande periodo. Così grande che con un po' di svolte, ammodernamenti e acquisizioni (ora un pizzico di cool, ora una spolverata di free) dura tuttora! Gustatevi questi numerosi brani in sequenza.

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