16 ottobre 2013

BANALITÀ DEL MALE. Se sono colpa del geom. Rossi fanatismi e totalitarismi.

Rastrellamento ebrei Roma da parte nazistiHanna Arendt, l’intellettuale ebrea liberal-socialista che come tutti i grandi geni era anche dotata di gusto per l’osservazione e di fine psicologia, dopo aver assistito al processo contro il criminale nazista Eichmann parlò – sorprendendo e scandalizzando anche molti ebrei – di “banalità del male”.

Bisogna evitare di innalzare fino a vette di grandezza assoluta, quasi “sovrumana”, la personalità di dirigenti ed esponenti del Nazismo e di altri fanatismi criminali, specialmente quelli nascosti da un’ideologia o una religione, come l’Islam fondamentalista di oggi, o la Chiesa Cristiana ai tempi dell’Inquisizione e delle stragi di Ugonotti. Specialmente ora che, morto a Roma – proprio alla vigilia del 70.o anniversario del rastrellamento nazista del Ghetto di Roma – il  militare nazista Priebke responsabile del massacro delle Fosse Ardeatine, non si sa dove e se celebrare i suoi funerali e ospitare la sua tomba, col rischio di farne un mausoleo per i nazisti di tutta Europa e di colpire e umiliare due volte il popolo romano che ne fu vittima, ebrei e no.

«Era un assassino orribile, un essere umano di seconda classe: non può certo avere dei funerali di prima classe», ha detto in una intervista Aharon Appelfeld, 81 anni, sopravvissuto alla Shoah perché riuscì a fuggire dal lager. Perciò riposi senza pace: del resto sarebbe felice di essere odiato. «Queste sono persone che hanno vissuto seminando odio: morire raccogliendo odio è quasi una soddisfazione postuma. Vanno sepolte e basta, come si fa con tutti i grandi criminali. Senza onoranze. Senza parole. I loro delitti sono storia, la loro morte è solo cronaca». E il perdono lo lascia ai cristiani, se ne sono capaci: «No, no, no, – dice Appelfeld – non può essere donato a un assassino di massa. La peggiore umiliazione per lui è che gli altri ricordino, non cerchino vendette, e insieme però non perdonino».

Ma un capo nazista è sempre un “Genio del Male”? Per rispondere  basta un qualsiasi psicologo: no. Al contrario, i fanatici criminali hanno di solito personalità mediocri e meschine, letture scarse e parziali, vite squallide e monotone. E i loro succubi aiutanti? Spesso sono apparentemente “normali”, anzi mostrano un disarmante alto tasso di prevedibilità e conformismo. Ma anche il cittadino qualunque, con la sua vigliaccheria, l’amore per il quieto vivere, può aiutare o rendere possibile il male. Ecco la “banalità”.

Insomma, all’atto pratico, può rivelarsi più pericoloso il piccolo-borghese della porta accanto del Grande Genio del Male idealizzato come un eroe romantico dell’800 da certi libri di storia.

La ricorrenza del 16 ottobre 1943, quando avvenne il rastrellamento degli Ebrei romani e la loro deportazione nei campi di sterminio da parte dei nazisti, è perciò l’occasione ideale per ricordare ancora una volta le responsabilità morali di individui singoli e di intere popolazioni, ancor oggi considerate “estranee” se non addirittura “vittime” del Nazismo. E la cosa vale anche per i Paesi già comunisti.

Non è accanimento mettere sul banco degli imputati morali anche i tanti cittadini comuni in Germania, Austria, Italia, Francia ecc, ritenuti le classiche “brave persone” da parenti e amici, che forse considerandosi “moderati” o “estranei alla politica” (considerata come oggi “cosa sporca”), non fecero nulla per opporsi al totalitarismo, né per aiutare gli Ebrei scelti ingiustamente come vittime sacrificali da quella folle “religione antisemita”, anti-liberale e anti-occidentale che fu il Nazional-Socialismo di Hitler.

Quell’ignobile comportamento di massa – che però ebbe luminose e bellissime eccezioni, che vanno sempre ricordate – ha dimostrato però che la difesa della libertà è strettamente connessa con due elementi doppi: la forza della personalità-carattere e la cultura-educazione. Due insiemi che contengono al proprio interno due componenti ben distinte: questa difficoltà spiega anche perché gli oppositori dell’autoritarismo non siano mai tanto numerosi in tutti i Paesi del mondo. Devono possedere non una ma ben quattro forti virtù.

La democrazia liberale, infatti, non consente passività e non è l’ideale regime per i vigliacchi: è fatta per gli interventisti e i coraggiosi. E anche per chi ha conoscenza dei diritti, della storia e della politica. Il grande filosofo liberal-socialista Guido Calogero, antifascista ristretto nel confino a Scanno, scriveva parole analoghe nella sua guida pratica all’impegno democratico (“Le regole della democrazia”).

Così, restare nell’ignoranza, non leggere la saggistica, non occuparsi, sia pure solo da lettori e testimoni, del “dibattito delle idee”, non essere abituati a commentare i fatti e gli eventi, non interessarsi della società, non impegnarsi in campagne di educazione popolare, che poi significa non avere idee precise o decise né una forte visione etica, è il viatico perfetto per chi rischia di diventare da un momento all’altro insieme carnefice e vittima del dittatore o del prepotente di turno.

La libertà, insomma, non è stata conquistata dai nostri Padri una volta per tutte, non è una condizione salottiera, ma lotta quotidiana.

(E infine, un po’ di veleno nella coda. Con questo vaglio critico facile da usare – la conoscenza e l’impegno – si può capire anche, già ora, quali saranno tra i propri conoscenti e parenti i prossimi, eventuali punti deboli delle difese “sociali” della libertà, addirittura i futuri “colpevoli”).

JAZZ.  Il chitarrista gitano Django Reinhardt, con Eddie South e Stephane Grappelli, in Improvisations Bach (I vers. 3.25), Improvisations Bach (II vers. 2.31), Crazy Rhythm (big band con Hawkins, mentre Django si limita all’accompagnamento) e con Rex Stewart e Barney Bigard in Low Cotton.

Etichette: , , , , , , , , , ,

11 ottobre 2013

ALBERI IN CITTÀ. Abeti, palme e tuje di borgata: così piace al rag. Fantozzi.

Alberi esotici in estrema periferia di Roma Google Maps Arrivi bel bello nel fine settimana in uno qualunque dei tanti stupendi paesini italiani, molti dei quali immersi nel verde della Natura più rigogliosa. Ed ecco che, di solito in periferia ma talvolta perfino in pieno centro storico, accanto al distributore di benzina, nel parco dei giochi, nel giardino della scuola elementare, davanti al supermercato o nel cortiletto vezzoso (con o senza gli gnomi di Biancaneve, ma questo è un altro discorso), ti trovi di fronte a un altissimo abete del Canada o addirittura a un robusto cedro del Libano dai grossi rami orizzontali che si protendono avidi di spazio tutt’intorno. Se poi il paesino gode d’un clima temperato o caldo, come a Sud, è immancabile la palma del deserto (sempreché nella “Villa Comunale” o nel giardino privato ci sia spazio). Ovunque è così in Italia, in villaggi e grandi città, e non va diversamente all’estero.
      Solo che da noi il Kitsch dell’albero esotico, piantato non per amore degli alberi o della Natura ma per “far scena”, stride di più. L’Italia ha oltre la metà (6000 circa) di tutte le specie botaniche d’Europa: più o meno 11.000, dal Portogallo agli Urali. Quindi è ricchissima – grazie al terreno, all’acqua e al clima – di alberi e “biodiversità”, come si dice oggi col solito neologismo burocratico (ah, se si praticasse anche una “ecologia del linguaggio”!). Quindi si potrebbero fare scelte arboricole più oculate usando alberi nostri, tipici. Insomma, non si può certo dire che sia difficile trovare un albero autoctono e storico da piantare con successo nelle nostre città, nei nostri paesi, anche i più montani, piovosi o aridi.
      E infatti, tutt’intorno al bel paesino che prendiamo a esempio si affollano, premono, quasi che volessero entrarvi, stupendi boschi di castagni o lecci dalle chiome fitte e ombrose, abeti e pini cembri, larici, faggi e grandi querce salde e tarchiate che hanno visto i nostri trisavoli e perfino i loro nonni, snelli aceri e carpini, e fichi, meli, gelsi, noci e peri ormai abbandonati che ci hanno visto giocare da piccoli. “Chi vuole che li raccolga quei frutti, signore mio! Ammesso che siano mangiabili… Nessuno cura più gli alberi da anni, e saranno rinselvatichiti. E poi sa quanto verrebbe a costare oggigiorno raccogliere frutti da un albero?” argomenta il vecchio pessimista seduto sulla panchina in piazza.
      Eppure, gli alberi, autoctoni o esotici, sono la nostra memoria, la nostra vita. Anzi, la vita ce la danno letteralmente, spandendo ossigeno e depurando la mala aria di città dai gas tossici. Perciò dovrebbero essere di più, molti di più, fuori e dentro le città. E non sradicati, tagliati, capitozzati o oscenamente potati (v. l’orribile immagine accanto, presa in via Seneca, a Roma) per ogni futile motivo.
     Ci sono città, come Torino, in cui a bilanciare un’urbanistica piatta e senza fantasia, il Servizio Giardini del Comune si vanta degli alberi numerosi (circa 150 mila di 85 specie), ben curati, e di circa 320 km di viali alberati con 20 mila platani, 8000 tigli, 4000 aceri, 3500 ippocastani, 3000 bagolari, 2500 “olmi della Siberia” (appunto), e poi ancora elenca betulle, noci americani, abeti, querce varie, frassini, carpini, ciliegi da fiore ecc. Ma in molte altre città, la maggioranza, è un disastro. E questo nel “Giardino d’Europa”!
Grandissimo abete mutilato via Seneca 10 (picc)      E poi andrebbero scelti con oculatezza, con criterio. Invece, che accade? Che in ogni paese o città, quei poveri alberi – un tempo “esotici”, oggi “extracomunitari” – rischiano di vivere come alberi di “serie B”, chiamati a riempire uno spazio che non è il loro, a vedersela con un clima sbagliato, e sopravvivono stretti tra automobili, sacchetti di rifiuti, hangar e casacce di cemento (che dovrebbero nobilitare…), a loro volta nobilitati solo dai cani, che li scelgono – bontà loro – per gli  urgenti bisognini (che è pur sempre un riconoscimento d’utilità…), o recintati da inferriate kitsch (a proposito di cattivo gusto guardate che combinano i famigerati giardinieri comunali della prima città d’Italia), spesso potati sadicamente o estirpati dagli operai del Servizi Giardini, notoriamente colpiti dalla “sindrome del boscaiolo-taglialegna”.
      Gli alberi “da città” sono stati scelti tra migliaia di varietà geneticamente modificate da agronomi che non solo non hanno mai camminato in un bosco in vita loro, ma neanche amano camminare in città. Un tempo dovevano rispondere al criterio di “ornamento stupefacente”, perciò erano specie troppo alte e spettacolari, qualcuna però dotata di radici così deboli, lunghe e superficiali che qualunque lavoro stradale finisce per intaccarle e indebolirle, a rischio di caduta disastrosa e danni gravi a persone, case e automobili (con indennizzi milionari). E’ il caso del bellissimo pino italico, Pinus pinea, che fece scrivere al compositore Respighi il quadro musicale “Pini di Roma”. Fatto sta che, impaurito dagli avvocati del Comune, il sindaco di Roma, Alemanno, da noi affettuosamente definito “l’Attila degli alberi”, fece tagliare tempo fa oltre 100 altissimi e bellissimi pini tra gli 80 e i 100 anni di età lungo viale delle Medaglie d’Oro (sostituiti da piccoli e anonimi tigli), e un po’ dappertutto. Una strage che ha cambiato il paesaggio romano e che non dimenticheremo mai. Con quel sindaco Roma ha cessato, purtroppo, di essere “la città dei pini”.
      Per reazione al pericoloso gigantismo di ieri, ora i Servizi Giardini piantano pianticelle insulse e mingherline alte due o tre metri, che restano piccole per tutta la vita e che – cosa gravissima nella sempre più lunga estate italiana (in alcune città va da marzo a ottobre) – non fanno neanche ombra, ma in cambio lasciano cadere a terra qualche fiore non odoroso che sembra carta acquerellata. E’ chiaro che si tratta di piante arbustive esotiche, sagomate e tagliate “come se” fossero veri alberi. Doppia finzione, quindi: non solo alberi finto-selvatici, ma anche alberi finti. Come meravigliarsi se a potarli e maltrattarli ci sono dei finti giardinieri, in realtà boscaioli, tutti accetta, sega elettrica e cervello da 30 millimetri cubici?
      Alcune alberature, invece, di per sé sono sicuramente “belle” se le fotografate con un altro fondale. Penso al viale di olmi in via MacMahon a Milano, le cui radici devono competere con le rotaie del tram, ai bagolari di piazza D’Azeglio a Firenze e di alcune vie di Milano (ma piccoli boschi fitti di bagolari selvatici si trovano sulle falde di Monte Mario e anche nella parte selvaggia di villa Pamphili, a Roma), ai platani lungo il Tevere o nella “valletta dei cani” a Villa Borghese, e a quelli altissimi perché orrendamente potati di viale delle Milizie e via A. Doria, a Roma.
      Molti altri, invece, soprattutto quelli dei giardini privati e dei cortili condominiali più recenti, appaiono falsi, pretenziosi, volgari (ma a essere davvero volgari sono i loro proprietari). Nei piccoli paesi, poi, risultano spesso “fuori scala”, immiseriscono e banalizzano nell’ingiusto confronto di proporzioni le piccole e dignitose case tradizionali di pietra viva o di tufo intonacato. Lo capiscono questo gli amministratori di condominio, i Signori Condòmini, i geometri del Comune, perfino gli “architetti del paesaggio” (ah-ah-ah, come rido: se non è un ossimoro questo…) e i presunti esperti di verde pubblico che sbagliando chiamano le varie specie arboricole “essenze”? Ma lo sanno che le essenze sono gli oli essenziali estratti – appunto, l’essenza – da fiori e semi? Forse no: estetica, buongusto e buonsenso non si tramandano di padre in figlio, tantomeno si studiano a scuola.
      E non voglio neanche arrivare all’ecologia, anche perché non credo proprio che gli aghi di un pino nero di Sassonia trapiantato dopo tanti trattamenti genetici dell’industria della “botanica da giardini” nella marina e mediterranea Sabaudia (Latina) o le altrettanto aguzze foglie di una palma ottimisticamente piantata alla periferia estrema di Roma (ma lo stesso sarebbe se fossero in Centro, sia chiaro, e comunque “si vendica” non facendo maturare i suoi frutti…), cadendo al suolo o colonizzate dagli uccelli locali inneschino chissà quali reazioni bio-chimiche a danno di animali, piante e uomini. No, figuriamoci. Gli alberi, anche quelli sbagliati, all’aria, all’acqua e alla vita degli animali tutti, Homo insipiens compreso, fanno solo bene. Basta e avanza l’estetica.
      In criminologia colpisce il caso non infrequente in cui “la vittima è costretta a fare il carnefice”. Ebbene, nel Lazio come in Lombardia, in Campania come in Piemonte, Emilia e Abruzzo, insomma un po’ ovunque, gli alberi in città sono costretti dall’uomo a fare cose che mai farebbero se fossero nati per caso nel loro habitat d’origine, e così sono complici della piccola violenza all’estetica e alla logica.
      Per caso mi è capitata sotto gli occhi una visuale di Google Maps a caso, in una via qualunque e anonima dell’estrema periferia romana (Roma sud-est), via Bernardi. Sùbito ho fermato l’omino di Street View quando ho visto quasi uno accanto all’altro tra le case anonime un alto albero di aghifoglie, forse un abete, e una bella palma. Per carità, sono alberi bellissimi, anzi magari ce ne fossero in certi centri storici delle grandi città o nei paesi del nostro Sud completamente spogli di verde! Però sembravano messi lì apposta, a significare il nostro sbagliato rapporto di cittadini con gli alberi.
Alberi del genere, piantati nei posti sbagliati, finiscono per essere una compensazione della tipica alienante vita cittadina senza bellezza, senza Natura e dai ritmi stupidi (non dirò disumani solo perché la stupidità è solo umana...), e la testimonianza di vari deficit.
      In mancanza di architetti e urbanisti intelligenti, all'albero vengono affidati compiti non suoi. E’ “costretto” a fingere, a svolgere un ruolo sbagliato, a fare in qualche modo violenza alla logica dei luoghi, alle stagioni e ai climi. Insomma, il povero albero di città è costretto da proprietari sadici & ignoranti & snob (senza nobiltà) a recitare una parte altrui.
      E così le confuse nostalgie esotiche dei tanti rag.Fantozzi si mescolano: da una parte, il sano ricordo delle montagne – un Nord mentale, simbolizzato dall’abete – dall’altra lo struggente desiderio di deserti improbabili – un Sud da cartolina simbolizzato dalla palma – entrambi stereotipi turistici di grande presa emotiva.
      Cominciarono i “famosi” pini a Roma e i cipressi in Toscana ad assolvere al compito di ispirare i pittori anglosassoni e locali. Mentre il grande Roesler-Franz, quasi a farsi perdonare centinaia di disegni dal vivo della Roma della fine dell’800, che stava per sparire, quadri in cui gli alberi quasi non c’erano, faceva ore di cammino, zaino con cavalletto e colori in spalla, per salire attraverso la sassosissima Val Cavalera da S.Polo al Monte Gennaro, a riprendere alberi “veri” nel loro ambiente naturale “vero”.
Una scelta precisamente snob: niente alberi locali, cioè regionali, e neanche italiani, niente foglie normali "nostrane", come acero, leccio, rovere, castagno, olmo, gelso, arancio, limone, alloro ecc., che troppo ricorderebbero il quotidiano, le origini comuni, dunque il mondo agricolo e la fatica dei nonni o dei padri. Non le siepi di volgari alloro, lentisco o mirto, o il cespuglio di nocciolo, che “servono”, come sapevano i contadini, ma quelle di nobile tuja, che come tutti i nobili non serve, e che a differenza di rovo, biancospino e bosso ha l’aria esotica. Guai a proporre nella riunione di condominio di piantare nel grande cortile ricco di buona terra un albero di fico o d’arancio! “E che, siamo bisognosi? Non vorrete, spero, far vedere che non possiamo permetterci di comperare la frutta al mercato!”, risponde seriamente la signora del piano di sopra…
      E’ lo stesso motivo per cui sui famigerati balconi italici non il prezzemolo, le fragole, i pomodorini rampicanti, il timo, il crescione dei prati, l’aglio e la cipolla, regnano di solito, ma le rose, o gli inutili, orribili e puzzolenti gerani. La botanica da giardino della signora piccolo-borghese. Le piante non da avere e godere, ma da “far vedere”.
      Non il bisogno, quindi, ma l’evasione dal bisogno, non il qui e ora ma l’altro e l’altrove, un diverso mondo possibile fatto di simboli vincenti. L’abete riferito a una montagna da cartolina, attribuita curiosamente ad un Nord sinonimo di ricchezza. La palma riferita ad un innominato Sud inteso come “luogo di vacanza e ozio eterno”.
      E l’albero? Be’ l’albero da città, si sa, per quanto coinvolto nei più orrendi delitti estetici (tanto più se barbaramente potato, tagliato, “capitozzato” da giardinieri imbecilli), è incolpevole. E nei casi di snobismo cialtronesco e fantozziano, è solo un mezzo, un pretesto, un particolare pittorico, un estetismo sia pure inestetico, ma anche un anestetico (distrae, non facendo pensare ad altre brutture: architettoniche). Potrebbe perfino – e così lo si è già visto – essere disegnato, dipinto, riprodotto come fotografia, falsificato come albero di Natale di plastica. Ma non è solo uno specchio delle idee e dei complessi psicologici e sociali di chi lo pianta, è anche un messaggio, vuole comunicare qualcosa. Ai concittadini e a noi stessi: “Siamo qui e siamo noi – dovrebbe voler dire per conto degli Umani da città che non hanno il coraggio di dirlo con parole loro – ma, che credete?, potremmo anche essere altrove, ed essere diversi”.

IMMAGINI. 1. Quando agli alberi forestieri o esotici tocca “nobilitare” un’anonima periferia urbana. 2. Quando i “signori Condòmini”, magari laureati, che avevano piantato il piccolo albero di aspetto montano per abbellire la loro brutta palazzina, senza sapere che sarebbe cresciuto fino a superare tutte le case vicine, perdono la testa dopo la prima caduta d’un pesante ramo. Record mondiale della potatura più pazza.

JAZZ. Un bell’album del chitarrista Django Reinhardt (“Djangologie, disco 17, 1949): faceva parte di una serie francese di 33 giri ora disponibili in ascolto mp3 da parte di una banca dati americana, che sarà utile anche per gli altri volumi della serie Djangologie https://archive.org/details/djangologiedisco17. Ecco i 14 titoli: 1 Swing 39. 2 Clopin-Clopant. 3 Liza. 4 Sweet Georgia Brown. 5 What Is This Thing Called Love. 6 My Blue Heaven. 7 My Melancholy Baby. 8 Just A Gigolo. 9 Troublant Bolero (Boléro De Django). 10 Rosetta. 11 Dream Of You. 12 Begin The Beguine. 13 How High The Moon. 14 Nuages.

AGGIORNATO IL 21 SETTEMBRE 2018

Etichette: , , , , ,

09 ottobre 2013

IL PAESE DEL “DOLORE”. L’unico vero, ignobile, sentimento nazionale.

Madonna Addolorata di Canosa di Puglia (Ottocento) Un Vajont dopo Lampedusa, aspettando la pietà a reti unificate per l'alluvione di domani? No, è davvero troppo! Il 50.o anniversario ha rinnovato masochisticamente il dolore del primo Vajont, quello vero, e si è trasformato in una nuova esondazione, un nuovo Vajont di lacrime. E pochi giorni prima, altro dolore di massa, anch’esso acquatico: i 200 annegati tra i migranti a Lampedusa. E domani?

Trovo morboso, malato nel profondo, un Paese (Destra, Centro, Sinistra, Nord, Sud: tutti uguali purtroppo) che si unisce solo nella retorica del dolore, nel cordoglio, nel ricordo delle proprie sconfitte, e non nella gioia e nelle celebrazioni delle proprie (numerosissime) vittorie in tutti i campi: arte, musica, storia della libertà, scienza, tecnologia ecc. Vergogna, questa volta sì, meritatissima vergogna. Ma per voi, non per me. E vergogna vera, secolare, non quel "vergogna" gridato dagli stupidi mediocri di internet ad ogni sciocchezza.

Il fatto è che la Chiesa cattolica ha abituato i contadini, da cui è derivata l'attuale società di massa in Italia, a piangere più che a gioire, a crogiolarsi nel dolore, ben prima che von Masoch esaltasse questo vizio in forma letteraria. Perché il Paradiso per loro è dei semplici e stupidi, cioè dei deboli e piangenti. E perché nel pianto l'uomo si fa bambino, inerme, facile preda dei furbissimi religionari, tutti psicologi nati.

Non per caso lo stesso Cristianesimo è dolore, psicopatologia (la croce, le ferite, il sangue, il corpo umano mangiato a tavola, il Dio-Uomo adorato proprio nel suo momento più basso: quando soffre e piange ecc.). Solo da noi un dio si lamenta. Ma se piange uno che si suole definire “onnipotente”, con chi se la prende, perché si rammarica? Non era tutto, a suo dire, scritto nel Fato, cioè nei voleri di Dio? E il bello è che piange, eccome, anche sua madre. La Madonna “addolorata” è un must in Italia. E nel Sud più piagnone dei già piagnoni chiamano ancora Addolorata le incolpevoli neonate nei villaggi dell’entroterra più nascosto. Come le tante Dolores (dove si sa già che i “dolori” saranno più d’uno...) in tutti i Paesi catto-meridionali, Messico incluso, che a chiamarli “latinos” si farebbe una grave offesa alla memoria dei veri Latini.

Ministra Fornero piange come Addolorata Cose inconcepibili nella grande cultura laica e perfino pagana. E non venite a raccontarmi del misterico ed esoterico culto dei morti presso gli Etruschi, che era un'altra cosa. Un tempo c’erano le donne in nero dal pianto querulo che seguivano i funerali (le prèfiche) non sembrando sufficiente di fronte alla comunità il sommesso dolore dei parenti. E sì, perché il dolore va recitato, ostentato, interpretato, reso spettacolo disgustoso ed esibizionistico. Perfino una ministra antipatica è costretta a far vedere di “piangere”, simulando così di essere, perfino lei, ricchissima e fortunata, un po’ perdente, sfigata, come tutti, per acquistare “simpatia”! Ovvio che solo da noi poteva allignare il vero melodramma. Altro che l’interiorità virile dei Paesi europei o nord-americani.

Così, è diventato ormai costume nazionale non solo piangersi addosso, ma “far vedere di piangere”, insomma ostentare la “sfiga”, perché si è sicuri che funziona il “chiagne e fotte” ad esorcizzare la malasorte. L’unico Paese al mondo in cui se chiedi a qualcuno “come va?”, ti senti rispondere: “e come vuole che vada: male, malissimo!”. E non lo fanno solo i superstiziosi contadini-commercianti-cacciatori-pescatori, ma quasi tutti.

E le coincidenze sono infinite in questo Paese luttuoso. In questo primo ottobre, dopo il cordoglio nazionale per i 200 morti tra i migranti africani annegati nel ribaltamento del barcone vicino a Lempedusa, è arrivato subito dopo il cinquantennale della disastrosa frana del Vajont, col ricordo di paesi distrutti e circa 2000 morti. Ma in ogni mese, ogni anno, si celebrano anniversari del genere, dalla strage di Capaci a Forcella della Ginestra, dalle Fosse Ardeatine al massacro nazista di S.Anna di Stazzema.

Commemorazioni che certo tengono uniti un popolo, almeno nelle memorie. Ma ogni giorno ce n’è una: non è un po’ troppo? Cose, certo, che fanno indignare chiunque abbia morale e sensibilità, e devono far commuovere, ma che sarebbe doveroso ricordare con silenzio virile e fattivo, magari bilanciando il ricordo luttuoso con opere e proponimenti concreti per il futuro (perché i giorni avvenire siano diversi, e non uguali a quelli tristi del passato), magari anche col ricordo di cose belle e meravigliose. Se c’è un sacrosanto Giorno della Memoria, perché non ci devono essere anche 364 giorni in cui si ricordano eventi belli e felici? Chi ha detto che il ricordo debba essere solo e sempre negativo?

Ecco perché, in attesa di una profonda mutazione genetica, preferisco gli antichi Romani, che almeno avevano altre più innocue superstizioni) ai levantini e piagnucolosi italianuzzi di oggi. E se proprio devo scegliere dei post-Romani, prendo l'Ottocento liberale e il Rinascimento. Non si può dire che fossero “poco sensibili”. Con questi qui – tranne Natura, arte, musica barocca e formaggi – non ho niente da spartire.

IMMAGINI. 1 La statua ottocentesca della Madonna Addolorata protagonista di una famosa processione a Canosa di Puglia. 2. La ministra Enza Fornero mentre piange visibilmente nell’esporre un programma di sacrifici popolari, vestita da ignoti utenti di Photoshop col velo della Madonna (ma quello dell’Addolorata dovrebbe essere nero…).

JAZZ. Il grandissimo Fletcher Henderson, precursore, anzi il vero fondatore dello stile artistico per big band, in due travolgenti brani d’epoca riproposti da volonterosi appassionati su YouTube. Il primo è Goose pimples, è del 24 ottobre 1927 e mostra due stupendi solisti: il trombettista Tommy Ladnier e il sax tenore Coleman Hawkins (altri musicisti: Russell Smith tp, Jimmy Harrison tb, Buster Bailey e Jerome Pasquall cl & as, Fletcher Henderson p, Charlie Dixon bj). Il secondo brano, The Stampede, è uno dei più belli dello swing per grande orchestra, è del 14 maggio 1926, e vede due stupende trombe, diversissime, quella introversa ed “europea” del nero Joe Smith (quasi un Bix afro-americano) e poi quella sfrontata e impetuosa di Rex Stewart. Gli altri sono: Benny Morton (tb); Buster Bailey (cl, as); Don Redman (cl, as, e arrangiatore); Coleman Hawkins (cl, ts, bs); Fletcher Henderson (p); Charlie Dixon (bj); Escudero (tuba) Kaiser Marshall (d).

Etichette: , , , ,